Agli Oscar 2022, Il potere del cane arrivava da grande favorito. Poi è andata come è andata (col solo premio alla regia), ma in fondo poco importa. Perlomeno a me, perlomeno qui. Perché qui si parlerà della forma di questo film, della sua estetica e del loro legame con un sottotesto queer, che forse tanto sotto non è. Anzi.

Personaggi

Il personaggio più interessante del Potere del cane è quello della fragile Rose di Kirsten Dunst. Ma per la regista, Jane Campion, che nel film sposta progressivamente il fuoco del suo racconto da un protagonista all’altro, questo è un film sul rude cowboy Phil che la bullizza psicologicamente. E, di riflesso, sull’efebico e timido Peter, figlio di Rose, che Phil tratta dapprima come un’altra vittima e poi come un allievo. E forse qualcosa di più.

Ma ecco che il disvelamento dell’omosessualità di Phil – che arriva superata la metà del film e dovrebbe far rileggere eventi e azioni avvenute fino a quel momento sotto una luce nuova – viene dopo una serie di allusioni indiziarie sfacciate e pedestri, e perfino un po’ ridicole per la loro evidente estetizzazione romantica.

Per dire: lo sguardo trasognato di Phil ogni volta che parla delle cavalcate effettuate in solitaria col suo mentore Bronco Henry – nei confronti della cui memoria, anche fisica, ha un atteggiamento feticista – non so quale margine d’incertezza potesse lasciare in uno spettatore anche poco smaliziato.

Potere estetizzante

Jane Campion non ha estetizzato solo la complessa relazione di Phil con la propria omosessualità, e con Peter, ma in generale tutto il suo film: come se avesse fatto fatica a scollarsi di dosso tutto il romanticismo, teorico e visivo, del precedente Bright Star, floreale biopic su John Keats.

Allora è stato forse più per reazione all’eccesso di estetizzazione che per reale omofobia che Sam Elliott – uno dei corpi western per eccellenza della Hollywood contemporanea: il cowboy coi baffoni che appare anche nel Grande Lebowski dei Coen, per intenderci – ha polemizzato con l’immagine del west e dei cowboy restituita dal film, sentendosi rispondere per le rime da Benedict Cumberbatch prima e dalla stessa Campion poi.

Clichè

Il problema però rimane, e non è del solo Elliott. Il giornalista americano Spencer Kornhaber, scrivendo del Potere del cane sull’Atlantic, evidenzia una serie di problemi legati alla sua queerness che, in qualche modo, possiamo attribuire all’estetizzazione del racconto della Campion: che non è fatta di sole immagini, o del ridicolo che si cela dietro Bronco Henry, o dell’ambiguità grossolana insita nel mostrare il contraddittorio Phil – colto ma volgare, sensibile ma aggressivo – castrare un vitello a mani nude, intervenendo lì dove gli altri cowboy hanno fallito.

Uno dei punti di Kornhaber è che Il potere del cane abusi dei cliché sui gay, ad esempio mostrando le contraddizioni di Phil solo come conseguenza della sua omosessualità, che lo rende diverso dagli altri cowboy, ferma restando l’ostinata ostentazione di quella che oggi si usa definire “mascolinità tossica”.

E che questa sua dualità, e il suo testardo voler rimanere “nel closet”, sia semplicemente uno strumento utile a suscitare pietà per lui da parte dello spettatore.

Bellissimo

Facciamo un passo indietro. Il potere del cane è tratto da un romanzo di Thomas Savage, che aveva in qualche modo attinto alla sua stessa esperienza di omosessuale nel contesto del west statunitense. E Annie Proulx non ha mai fatto mistero di aver visto nell’opera di Savage una fonte d’ispirazione per la sua raccolta Distanza ravvicinata, e in particolare per il racconto Gente del Wyoming, che poi è quello su cui Ang Lee ha costruito I segreti di Brokeback Mountain.

Ferme restando le differenze tra i due film (che per Kornhaber sono maggiori di quelle che vedo io), e lasciando da parte lo specifico letterario, sarei curioso di sapere cosa pensi del Potere del cane lo scrittore e critico e accademico statunitense D. A. Miller, del quale Nottetempo ha appena pubblicato Bellissimo, libro che mette assieme – preceduti da una bella e appassionata prefazione di Franco Moretti, anche traduttore – due saggi dedicati a due dei più noti “film gay” degli ultimi anni: I segreti di Brokeback Mountain, appunto, e Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino.

Ipocrisia

Ne sarei curioso perché Miller, come testimonia Bellissimo, è assai divertente da leggere, appassionato e infuocato com’è, impegnato nel portare avanti uno sguardo polemico e militante con uno stile che per fortuna nulla ha della composta letteratura accademica tradizionale, né della paludata e paludosa saggistica cinematografica.

E poi, e soprattutto, perché credo che ci siano molti punti di contatto tra la le osservazioni fatte finora circa l’estetismo e i cliché del film della Campion e la lettura radicale che Miller porta avanti di quei due film che, a suo dire, sono esempi lampanti di come il cinema mainstream (hollywoodiano ma non solo) stia sì affrontando sempre più spesso storie gay, nell’ansia di mostrarsi al passo coi tempi woke che viviamo, ma lo stia facendo con una certa ipocrisia.

Potenzialità disinnescate

La tesi di Miller, infatti, è proprio quella per cui la complessità e le asperità dell’identità e della sessualità omosessuali, e soprattutto la loro potenzialità dirompente ed esplosiva nei confronti della cultura etero e borghese, vengano disinnescate e addomesticate, fatte rientrare nei canoni del gusto, dello sguardo e del sentimento dominanti, attraverso il ricorso ad una forma estetica e narrativa che, oltre a nascondere lo scandalo dell’atto sessuale, ammanta di una patina di bello, di romantico e di delicato e di commovente tutto ciò che circonda e che identifica il personaggio (o i personaggi) omosessuale.

Che, da un certo punto di vista, è esattamente quello che fa Jane Campion nei confronti del eest e, più ancora, di Phil, che non riesce a nascondere tutta questa bellezza – tutta questa sua sensibilità – sotto i modi da duro coi calli sul cuore oltre che sulle mani e lo sprezzante rifiuto di ogni forma d’igiene personale.

Curiosamente, nel suo articolo sull’Atlantic, Kornhaber dice che Il potere del cane, col suo procedere inevitabile verso la morte e i suoi risvolti sadomaso, si spinge verso i territori di un film chiave per l’evoluzione della rappresentazione dell’identità omosessuale come Cruising di William Friedkin, il film in cui Al Pacino interpreta un poliziotto che s’infiltra negli ambienti dei club per gay della New York del 1980 per scovare un serial killer che prende di mira gli omosessuali, finendo con lo scontrarsi con un mondo che lo turberà profondamente.

Ma Crusing raccontava l’omosessualità attraverso coordinate niente affatto comode o concilianti, e lo stesso Miller, come ricorda Franco Moretti nella prefazione di Bellissimo, scrisse che le inquadrature del film di Friedkin «gettarono una luce quasi accecante su una sessualità che era rimasta così nell’ombra da essere di fatto cinematograficamente invisibile [...] farci vedere il “sessuale” nell’“omosessuale” in qualsiasi misura, non dico poi con la dovizia di Friedkin, è stata una conquista memorabile [...]. A prescindere dalla loro lavorazione estetica, queste immagini posseggono un’indiscutibile forza documentaria».

Con un filtro

In questa verità riscontrata in Cruising risiede la vera bellezza, per Miller. Non certo sotto quella sorta di filtro Instagram che il cinema mainstream applica per piallare asperità e imperfezioni del mondo gay. Anche Keats sosteneva che la verità fosse bellezza, ma, al contrario di Miller, anche che la bellezza fosse verità.

A dispetto della crudeltà che emerge nel finale del Potere del cane e che riguarda, comunque, in maniera peraltro ambigua, l’identità omosessuale (il delicato Peter compie un percorso speculare a quello di Phil, e alla fine svela una tossicità assassina assai poco delicata), l’impressione è che Jane Campion, pur animata di ottime intenzioni, abbia anche lei finito per usare quel filtro, cercando più la verità nella bellezza che non il contrario.

E forse proprio per questo la bellezza del Potere del cane è apparsa ad alcuni, e non solo a Sam Elliott, fasulla e stucchevole. Non solo quando applicata allo specifico omosex.

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