Aida Buturovic abita appena fuori il vecchio quartiere turco di Sarajevo, in una casa affacciata sul fiume. L’affitto è alto e la casa è umida, perché fatta di legno e mattoni di argilla. Però lì di fronte, sulla sponda opposta, c’è la Vijecnica, la biblioteca della città, e lei può vederla da ogni finestra.

Da ragazzina si era abituata in fretta alla sua bruttezza, un palazzaccio giallo e ocra in stile moresco, copia di una madrasa egiziana, brutalmente inserito nel sottile centro storico dove tutto è a misura d’uomo. Ci era entrata per la prima volta a 13 anni, insieme a sua madre. Nell’atrio, sotto l’enorme cupola di vetro, con il naso all’insù, aveva sentito una vertigine e le aveva stretto forte una mano. Non sapeva che avrebbe passato tutti gli anni del liceo e poi dell’università tra quelle mura; sempre lì si sarebbe data appuntamento con le amiche e più tardi con i fidanzati, all’esterno se era bel tempo, sotto il portico e nelle aule se pioveva o faceva freddo.

Al di là del fiume

Aida parla cinque lingue, è laureata in letteratura comparata, una delle migliori studentesse del suo corso. Ora lavora alla Vijecnica come bibliotecaria. Ha 32 anni e vuole un figlio, spera che la guerra finisca presto.

La notte del 25 agosto 1992 il caldo schiaccia la città e toglie il sonno. Sui tetti i cecchini, pieni di anfetamine, guardano Sarajevo attraverso il mirino degli M40 ad alta precisione. Aida beve caffè nella sua piccola cucina e vede la punta dei minareti, il campanile della chiesa dei francescani, la ciminiera della fabbrica di birra, immagina appena più a sud la sinagoga aschenazita.

Sorride. Al di là del fiume la Vijecnica è maestosa, ingombrante. Ricorda quando il professore di storia durante una lezione aveva chiesto a ciascuno di loro di dichiarare la propria nazionalità. Voleva che dicessero chi era serbo, chi musulmano, chi croato. Era la metà degli anni Ottanta. Tutti avevano abbassato la testa, si vergognavano della domanda, erano jugoslavi.

La biblioteca in fiamme

Nel silenzio suona l’allarme, le sue mani cominciano a tremare e il caffè schizza fuori dalla tazza. Il primo boato scuote la casa, lei è terrorizzata, si accuccia sotto un muro portante perché sa che il soffitto potrebbe crollarle addosso. Poi vede un bagliore di fronte a sé: la biblioteca è in fiamme.

Le granate incendiarie cadono una dopo l’altra sul tetto della Vijecnica lasciandosi dietro una scia luminosa. Migliaia di libri, migliaia di ore, la sua giovinezza passata lì dentro a leggere Sheradzade, Dante e Boccaccio, Raskolnikov, Meursault, la vecchia Phoebe vanno a fuoco.

Aida è in strada, sotto il tiro dei cecchini. Insieme a lei ci sono colleghi, studenti, professori, cittadini sarajeviti. Sono centinaia. Formano una catena umana che si passa libri incandescenti per sottrarli alla distruzione. Ne portano in salvo quanti possono, mentre il fuoco sgretola le colonne di marmo, fonde il ferro che reggeva la grande cupola di vetro al centro dell’edificio. Ci sono fumo, fiamme e macerie dappertutto.

La catena si slaccia, il via vai s’interrompe. Aida guarda i libri scampati, sono pochi, pochissimi. Poi un boato più vicino, non c’è nemmeno il tempo per voltarsi, una scheggia la prende alla testa e la schianta a terra, distesa. Sopra il suo corpo, volteggiano brandelli di pagine annerite.

Cancellare la memoria

Un milione e mezzo di volumi, 150mila libri rari, incunaboli e manoscritti, l’archivio nazionale, lettere, contratti, copie di giornali, periodici, l’intera collezione dell’Università di Sarajevo: la biblioteca brucia per tre giorni e tre notti, impestando l’aria di un pulviscolo irrespirabile. Della Vijecnica resta in piedi solo lo scheletro pericolante, del tesoro custodito si salva qualche migliaio di libri. Il resto è perduto per sempre.

Quella notte soltanto la biblioteca è distrutta, gli edifici intorno sono intatti. Il bombardamento è programmatico. Tre mesi prima è stato raso al suolo dalle granate l’istituto orientale di Sarajevo, e con lui la più ricca collezione di manoscritti islamici del paese: 5.263 testi in arabo e persiano; 7mila documenti ottomani fondamentali per ricostruire cinque secoli di storia bosniaca; una collezione di registri catastali del XIX secolo; circa 200mila documenti di epoca ottomana, l’intero catalogo dell’Istituto.

La distruzione non si ferma ai libri, tocca luoghi di culto, archivi di ogni tipo, uffici dell’anagrafe e del catasto: chi non c’è più non deve essere mai esistito. Si elimina ogni prova materiale che possa ricordare un passato di convivenza pacifica, un patrimonio culturale e storico comune alle diverse lingue, fedi e popoli.

Durante la guerra i sarajeviti non si difendono solo dalla fame, dal freddo, dalle granate, dai cecchini, si difendono da un’idea di comunità etnicamente omogenea, rigida, esclusiva, intollerante, follemente purificatrice; dall’orrore per l’infezione nazionalista che fa proseliti, emargina e punisce; dall’indifferenza dell’Europa che non capisce.

Continuare a respirare

La Bosnia era Sarajevo e Sarajevo era la sua biblioteca: un microcosmo in cui c’era qualcosa di più della tolleranza e della coabitazione, c’erano scambi, convivialità, feste, matrimoni, figli.

La guerra scoppia proprio mentre l’Europa si sta formando. Del 1992 è la firma sul trattato di Maastricht: si aprono le frontiere, si permette a ogni cittadino europeo di vivere e lavorare negli altri stati. L’obiettivo è una comunità politica che superi il potere assoluto delle singole nazioni, fondate sul presupposto di un’unica lingua, fede, cultura.

Ecco, la Bosnia era già questo, un’entità associativa naturale. Era la prefigurazione incarnata dell’Europa, il suo embrione. Non ci siamo accorti che lo smembramento della Bosnia avrebbe messo in pericolo il progetto europeo, decomponendolo a est e a ovest.

Con quanta amarezza guardiamo oggi alla Brexit, alla Turchia di Erdogan, alla Polonia che rivendica la supremazia delle proprie leggi su quelle europee.

A Sarajevo assediata i cittadini continuano a scambiarsi il saluto per strada, a usare le posate, a scrivere, a disegnare, a ballare, a fare teatro. Conservano la possibilità di esistere come esseri culturali; conservano il diritto a una vita comune di nazioni, religioni e convinzioni diverse.

Dopo l’incendio, all’interno della Vijecnica si forma un gigantesco cumulo di macerie. Seduto in cima alle macerie, in smoking, Vedran Smajlovic, unico sopravvissuto del quartetto d’archi dell’orchestra di Sarajevo, suona l’Adagio di Albinoni per tre ore di seguito, senza fermarsi. Anni dopo dirà: «L’energia che sentivo era qualcosa di sacro, l’edificio ancora respirava, nonostante fosse del tutto distrutto».

Forse, anche se fragile, lo spirito della città esiste ancora.

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