Ero nel parcheggio del Lingotto di Torino per partecipare al Salone del Libro quando caddi in una voragine che mi precipitò nell’oltretomba.

Un uomo butterato uguale a Charles Bukowski mi prese sottobraccio. «Questo è l’anti inferno, vuoi scendere per una visita guidata?».

«Cos’è?».

«Hai capito bene».

«È l’ennesima trovata pubblicitaria per l’anno dantesco?».

«Ehi amico, nessuna trovata».

«Come mai non ho visto nessun cartello con su scritto “Lasciate ogne speranza, o voi ch’entrate?”».

Pagai pochi spiccioli e mi spiegò: «Non c’è un solo aldilà, questo dove ti porto è l’infernetto letterario».

Gli ignavi

Subito giungemmo dagli ignavi che erano i critici che in vita non avevano mai preso una posizione netta, preferendo soltanto riassumere la trama dei libri. Se ne stavano imprigionati dentro una grotta, costretti a rileggersi per l’eternità le loro recensioni furbe ma non intelligenti.

Ne afferrai uno. «Perché avete scelto di essere critici imparziali?».

«Perché così erano felici tutti, editori, scrittori, giornali».

«Ma essere critici imparziali è una contraddizione in termini. Un critico deve criticare, cioè giudicare attraverso un’analisi».

«Quanta fatica per niente. Da ultimo non leggeva più nessuno».

«E allora?».

«Lo spoiler è nato per dare ai lettori il brivido della lettura senza la fatica di dover leggere sul serio».

«È la letteratura come esperienza del profondo? Come attraversamento di un mistero?».

Il critico scoppiò in una risata oscena molto simile a un gemito di dolore. «Avreste dovuto pagarmi di più, e avrei smesso all’istante di raccontarvi la trama».

Uffici stampa

Ci allontanammo da quel brusìo tetro e incontrammo un bosco che faceva da spartiacque tra anti inferno e limbo.

«In pratica è il fiume Acheronte», osservai.

«Che dici?» sbuffò Charles. «Non farmi riferimenti colti tanto la Divina Commedia non l’ho letta».

Pensai che il bosco in questo caso servisse a ricordare ai penitenti letterari di quale elemento fondamentale avessero fatto scempio, cioè la cellulosa. Oltre quella vegetazione tanto più sinistra perché incontaminata si giungeva a una spiaggia dove in un eterno festino della Scuola Holden banchettavano gli addetti ai lavori della filiera editoriale – soprattutto addetti stampa –, e in particolar modo quelli che si erano dimostrati empi.

«Nel loro caso la pena è la perpetuazione del peccato», spiegò Charles.

«Sono una moltitudine».

Avvicinai una ragazzina che ancheggiava sorseggiando uno spritz. «Hai la minima idea del motivo per cui sei qui?».

«Non lo so, da ufficio stampa ho sempre fatto il mio lavoro scrupolosamente. Non ho mai condiviso un solo mio contatto ma ho sempre e soltanto fottuto i contatti degli altri, soprattutto degli scrittori, veri polli da spennare».

«Impeccabile», osservai, prima di allontanarmi da quella specie di sordido carnevale di Rio.

Più in là si apriva un vallone che scendeva per cerchi concentrici.

«Se non sbaglio dovrebbero essere nove» dissi, con lo zelo di uno studente secchione.

«Non ne ho la più pallida idea, ma guarda quanta cazzo di gente», tagliò corto Charles.

Philip Roth in paradiso

Nel primo cerchio c’erano gli scrittori vissuti prima dell’avvento di Einaudi Stile Libero, gli sbattezzati, quelli senza peccato perché non avevano conosciuto l’abbinamento di un libro con una cassetta Vhs.

«Anime erranti ma senza una reale colpa», riepilogò Charles.

Subito dopo ci si parò dinnanzi Minosse, che stava sopra un masso tipo vigile urbano demoniaco a smistare i peccatori.

«Voi non appartenete al popolo delle ombre», ci sgridò.

Charles fece spallucce. «Ok ci hai sgamato, ma io sono una guida autorizzata, business is business».

Nel secondo cerchio trovammo i lussuriosi, tutti quegli scrittori che avevano tentato invano di descrivere un coito o una scena di sesso con un tripudio di similitudini sbilenche e metafore appiccicate con lo sputo.

«Il tormento perenne nel caso specifico è scopare seguendo per filo e per segno le descrizioni contenute nei loro libri. Ecco perché sembrano impegnati in un Kamasutra per dementi».

«Spero non ci sia Philip Roth», mi lasciai scappare. «Mickey Sabbath è un personaggio grandioso».

Charles sghignazzò. «Scherzi? Philip è in paradiso. E suppongo gli abbiano dato un paio di Nobel d’ufficio».

I golosi

Nel terzo cerchio, che era quello dei golosi, ci avevano messo gli scrittori di gialli convinti di non aver scritto soltanto un giallo. Provai ad avvicinarne uno. «Che c’è che non va nella letteratura di genere?».

«Niente, ma io ho scritto gialli metropolitani».

«Son sempre gialli».

«Gialli metropolitani con un tocco di noir».

«Son sempre gialli».

«Gialli metropolitani con un tocco di noir e una spruzzata di thrilling».

«Son sempre gialli».

«Gialli metropolitani con un tocco di noir e una spruzzata di thrilling e una screziatura di Robert Walser».

«Son sempre gialli».

«Gialli metropolitani con un tocco di noir e una spruzzata di thrilling e una screziatura di Robert Walser e con un lavoro sulla lingua di matrice joyciana».

«Son sempre gialli».

Lo scrittore sbuffò. «Non vuoi proprio capire, eh? Io ho scritto gialli metafisici».

«E qual è la differenza tra un giallo e un giallo metafisico?».

«In un giallo metafisico il vero assassino è sempre Dio. Ecco perché mi hanno messo all’inferno».

«E se invece fosse mancanza di umiltà? L’incapacità di apprezzare il buon artigianato? Scerbanenco è in paradiso, lo sai?».

Tutto diventa falso

Nel quarto cerchio gli avari erano gli scrittori incapaci di elogiare i colleghi.

Uno di loro mi afferrò una caviglia.

«C’è uno sbaglio, io non dovrei essere qui», si lagnò, facendo capolino da un cratere di fiamme.

«E perché no?».

«Una volta mi ricordo di aver parlato bene di un collega».

Charles mi fece cenno di non curarmi di lui e passare oltre. «Era un tizio che pubblicava con il suo stesso editore e scriveva sul suo stesso giornale e aveva perfino il suo stesso agente. E credo che fossero anche parenti».

Nel quinto cerchio c’erano gli iracondi, cioè i provocatori, quelli che si erano accontentati del politicamente scorretto (opposto ma in buona sostanza identico al politicamente corretto), i quali venivano bruciacchiati da un’enorme penna a sfera infuocata che rappresentava il talento mal speso.

All’ingresso del sesto cerchio mi fermai. «Questo è ambìto, dovrebbero starci gli eretici».

«Non è come pensi tu, non ti aspettare di farti un selfie con Giordano Bruno. Qui l’eresia è intesa alla rovescia, perciò è il posto dei manieristi, quelli che per inettitudine non hanno saputo uccidere i maestri».

Mi voltai verso la distesa di quei disgraziati e, prima che le acque infuocate del Flegetonte mi bagnassero i piedi, vidi con orrore che erano obbligati a rosicchiare nella fanghiglia i teschi dei loro stessi beniamini. Notai anche un gruppo di donne che si accaniva su un unico teschio.

«E quelle poverine laggiù?», domandai.

«Sono le scrittrici che, senza averne i talenti, hanno pensato di essere Simone de Beauvoir».

Venne poi il settimo cerchio, quello dei violenti, che era quasi esclusivamente occupato dagli editor-scrittori, i quali avevano tradito due mestieri allo stesso tempo, usando il potere del primo per primeggiare nel secondo.

«Il loro tormento?» domandai, abbassando istintivamente gli occhi per non guardare.

«Vengono marchiati a fuoco sulle chiappe con i refusi dei libri di ogni epoca».

Scendemmo ancora, fino all’ottavo cerchio, e mi tremarono le vene e i polsi.

«Cominciano le male bolge», annunciò Charles. «Qui puoi intendere tutto alla lettera, il mondo editoriale pullula di ruffiani e adulatori, ipocriti e ladri».

«Se non sbaglio una bolgia è dedicata ai “seminatori di discordie e scismi”».

«Appunto, pensa ai comitati direttivi e alle giurie dei premi».

«E i falsari chi sono?».

«Gli scrittori di autofiction».

Ne avvicinai uno che stava con la faccia affondata nel fango.

«Cos’hai scritto?», domandai.

«Un libro verità, la storia di come sono guarito dal cancro. Poi sono passato all’autismo di mio fratello. E ho piazzato in classifica anche una trilogia sul pollice valgo di mio zio».

«Perché non hai creduto nell’immaginazione, unico e autentico strumento della letteratura? Perché hai ceduto alle lusinghe dell’io?» lo incalzai.

«Chi lo stabilisce che quell’io fossi veramente io? Non lo sai che qualunque cosa dal momento in cui viene scritta diventa falsa?» protestò, prima che un gruppetto di demoni accorresse a vergarlo. Quello però non si zittiva. «Dopo il Grande Fratello raccontare i cazzi propri è diventata letteratura!».

Ho scritto

Charles mi si mise di fianco. «Immagina che casino qui quando cominceranno a schiattare i primi influencer».

«Oggi tutti vogliono scrivere e nessuno vuole più leggere».

«È il narcisismo patologico dei social network, magari ognuno avesse almeno diritto a un quarto d’ora d’oblìo».

«Prima si diventava famosi perché si scriveva un libro, ora si scrive un libro perché si è famosi».

Poi fece freddo, freddissimo.

«Che succede?» domandai.

«Guarda in basso».

Sotto di noi si stendeva il Cocito, un lago completamente ghiacciato, spettrale.

«Wow», esclamai. «Sai che sono uno scrittore anch’io?».

Charles impallidì. «Cazzo, avresti dovuto dirmelo prima. Le visite sono vietate agli scrittori viventi».

«Ormai è fatta».

«Quando sarà il tuo momento pensi che verrai quaggiù?».

«A essere sinceri non lo so, so solo che non potrei fare a meno di scrivere».

«In un certo senso è già una dannazione?».

«Lo è, ma per la stessa ragione è anche una benedizione».

«Che intendi?».

«Che in questi anni ho scritto nonostante tutto, ho scritto dovendo pagare le bollette, ho scritto traslocando (più volte), ho scritto soffrendo per amore, ho scritto aspettando lettere e scrivendone io stesso (poi ore e ore di chat), ho scritto mentre morivano persone che amavo, ho scritto facendo altri lavori anche lontanissimi da quello della scrittura (con relativo immane sperpero di energia per evitare la schizofrenia), ho scritto sotto la doccia invece di fischiettare e naturalmente sul cesso, ho scritto pregando (e a volte, spesso, ho pregato scrivendo), ho scritto sia che la mia squadra di calcio vincesse sia che perdesse, ho scritto guardandomi allo specchio (fuor di metafora), ho scritto facendo la fatica di allacciarmi le scarpe, ho scritto bestemmiando, ho scritto cercando di tenermi in forma (ora, mestamente, cammino veloce), ho scritto quando non avrei dovuto (rendendomi conto molto presto che per me andare in “vacanza” sarebbe stato impossibile), ho scritto indifferentemente con un sorrisetto arrogante stampato sulla faccia e con gli occhi umidi di pianto, ho scritto guidando, ho scritto prendendo milioni di caffè, ho scritto cercando di leggere, pur sapendo che non avrei potuto farlo con la spensieratezza di un vero lettore, ho scritto litigando con editor e uffici stampa, ho scritto stringendo e troncando amicizie, ho scritto cambiando editori (non vi dico che fatica), ho scritto scrivendo tantissimo per i giornali (sottopagato e quasi mai un “grazie”), ho scritto anche mentre ero impegnato in cose belle ma dispendiosissime (esempio: scopare), ho scritto crescendo una figlia (apro la parentesi solo per sottolineare che dovrei aprire una parentesi troppo lunga per elencare le attività che una figlia può e deve sottrarre alla scrittura), ho scritto perdendo tempo su questi social di merda dispensatori di dopamina a buon mercato, ho scritto ammalandomi e dovendomi curare e vedendo ammalare altri e dovendoli curare (le ricette, le analisi nei centri specializzati, le farmacie, gli ospedali), ho scritto perdendo la pazienza e anche, talvolta, la speranza, da giovane ho perfino scritto aspettando di diventare uno scrittore cioè aspettando d’iniziare a scrivere per davvero, ma siccome questa tutto sommato è la vita e tutti gli scrittori chi più chi meno hanno scritto nelle mie medesime condizioni, non me ne farò un vanto».

Un eterno firma-copie

Charles si strinse nelle spalle. «Secondo me solo con questo pippone ti sei guadagnato il purgatorio. Adesso muoviamoci, ci aspetta la nona e ultima cerchia, la peggiore, quella dei traditori della letteratura».

Nella prima zona trovammo gli scrittori nichilisti, quelli che erano convinti che la letteratura non servisse a niente. Ogni tanto una saetta li fulminava, ma non sembravano troppo pentiti.

«Siamo cinici perché non cambiamo idea, non cambiamo idea perché siamo cinici», dicevano, dandosi manforte l’uno con l’altro. «Con la letteratura puoi curare le malattie o risolvere la fame nel terzo mondo o curare il pianeta? No, e allora!».

Nella seconda zona invece c’erano gli impegnati, quelli che al “come” preferivano il “cosa”.

«Dimmi in quale battaglia credi e ti diremo che tipo di scrittore sei», cianciavano ruminando fili d’erba annegata nello sterco luciferino. «Privilegia un tema e fa delle tue parole proiettili».

«E le ultime due zone?», domandai.

Charles si sfregò le mani. «Sono le più interessanti, e a loro modo sono variazioni delle prime due, perché la letteratura la tradisci solo in due modi: pensando che sia inutile o utilissima, accessoria o fondamentale, prescindibile o necessaria».

Nella terza zona c’erano gli scrittori che si prendevano troppo sul serio, i cosiddetti letterati.

«Cosa vi ha fatto pensare che la buona letteratura non sia sempre stata anche buon intrattenimento?», chiesi a un gruppetto di loro (erano sistemati uno sopra l’altro come un castello di carte, a rimarcare la loro vera essenza: l’aleatorietà).

«Per noi la letteratura deve essere noiosa», risposero in coro. «Se è divertente non è più letteratura».

«E Ionesco? Avete mai provato a leggere ad alta voce Ionesco?».

«Il lettore deve fare fatica a leggerci, il lettore deve fare fatica a comprenderci».

«Per quale maledetta ragione?».

«Noi non siamo bravi, ma siamo grevi, e abbiamo spaventato generazioni di lettori, e ci hanno messo nelle antologie scolastiche. Questo ci basta».

La quarta zona pullulava di bestselleristi, quel nutrito gruppo di scrittori senza scrupoli che aveva pensato più alla carriera che alla vocazione, più alla tecnica che allo stile.

«Brutti figli di puttana», esclamò Charles. «Vuoi metterti in coda per un autografo?».

«Non ci penso proprio, perché?».

«È il loro supplizio, essere costretti a un firma-copie eterno, senza possibilità d’interruzione».

Ai chioschetti

Camminammo svelti per quelle lande, incalzati da alcuni diavoli che ci puntavano i forconi al culo.

«Siamo quasi alla fine del giro», mi disse Charles, dandomi di gomito. «Ecco il titolare».

Fu allora che mi accorsi di Lucifero conficcato nel ghiaccio. Era contornato da decine di editori a pagamento acchiappa esordienti.

Visto che davanti a quello spettacolo mi ero pietrificato, Charles imprecando mi tirò via per un braccio. «Ti va una birra a uno dei chioschetti del Salone?».

«In realtà volevo andare a sentire Michel Houellebecq».

«Oh, lui ha il paradiso garantito». Prendemmo una scala mobile, “e quindi uscimmo a riveder le stelle”.

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