Qualche anno fa portai le studentesse e gli studenti del mio corso di letteratura italiana a incontrare martiri e sante nelle gallerie del museo dell’università di Princeton. Stavamo studiando questioni di razza, religione, genere e sessualità tra rinascimento e tarda modernità; cercavamo di capire com’è che questi aspetti dell’identità si manifestano leggendo di un personaggio, sentendolo parlare in un film o osservandone un muto ritratto.

Dopo una serie di teatralissime vergini barocche in estasi e meretrici bibliche assai ganze, ci arrestammo al cospetto di un San Sebastiano glabro, efebico, coi capelli lunghi e un rossore da cipria sulle liscissime guance. Ci incantò. Federico Zeri attribuiva quell’olio del primo Cinquecento a un maestro umbro, forse toscano, quasi certamente seguace del Perugino.

Spiegai questo, aggiungendo quattro cose sull’iconografia del martire – le frecce, in quest’opera ridotte a una sola nell’inguine, l’ossessione di Yukio Mishima e Pier Paolo Pasolini per quel ragazzo ignudo legato a un palo, la malattia cui il suo rossore probabilmente allude, trattandosi del patrono degli appestati. Feci tutto ciò senza pronunciare il suo nome, che credevo noto, e parlando in inglese, dunque non adoperando i generi grammaticali che, nelle lingue romanze come l’italiano, danno tanti grattacapi a chi vuole parlare e scrivere in modo inclusivo. Il silenzio rapito che seguì al mio discorsetto fu rotto da uno studente, laureando in economia, che domandò: «Wait… she’s a girl right?»

Il sesso dei santi

Come si usa nella pedagogia socratica delle università degli Stati Uniti, a quella domanda non risposi. La girai, invece, al resto del gruppo, chiedendo di arrivare insieme a una risposta plausibile in base alle sole informazioni offerte dal quadro che avevamo davanti. Quel corpo dipinto, praticamente nudo, ci esibiva, tranne i genitali, ogni sua parte in una luce piena e diretta, esposto com’era ai dardi degli arcieri che, nella finzione pittorica, compivano il suo martirio. Che altro poteva servire per determinarne il genere?

Furono subito tutti d’accordo nel dire che il volto poteva essere quello di un boy o di una girl, indifferentemente, e che né le braccia tornite né le clavicole tese suggerivano granché. Qualcuno cercò di capire se l’ombra sul collo corrispondesse a un pomo d’Adamo, qualcun altro ebbe l’arguzia di ipotizzare un compromesso metafisico («It’s not a girl, it’s an angel!»). Ma, prevedibilmente, il dibattito finì per concentrarsi sul petto. Si trattava di muscoli o di mammelle? Di seni accennati o accentuati pettorali? Non furono la forma, o il volume, a risolvere la questione. Il consenso si raggiunse sul fatto che l’artista intendeva rappresentare un ragazzo perché, altrimenti, avrebbe realizzato in modo diverso i suoi capezzoli.

Tabù di genere

Che brutta parola, “capezzoli”. Spolverando qualche nozione di grammatica storica suppongo che si tratti di un diminutivo, di un piccolo “capo” (non nel senso di testa o di comandante, ma di estremità, bandolo). Un parente imbarazzante di “capitolo” o “capitello”? Anche in inglese, nipple, mi suona un po’ imbarazzante, e così nel francese mamelon, o nel latino papilla.

Se cerco su Google translate le traduzioni in lingue che non conosco, mi paiono però tutte più rispettabili e neutre. Devo dunque dedurne che non sia il suono, in sé, a disturbarmi. Cos’è che mi imbarazza allora? In quanto maschio, ho sempre potuto esibire il mio petto nudo senza alcun imbarazzo. Posso, come tanti fanno in primavera a Filadelfia, andare a correre al parco senza maglietta, nessuno mi noterà nemmeno.

Se fossi una donna, invece, non potrei: dovrei portare un pur minimo top, qualcosa per coprire almeno, appunto, i capezzoli. Nelle scene a letto di quasi tutta la televisione o filmografia d’oggi, se non riservata a un pubblico adulto, i maschi sono serenamente in mutande, liberi. Le donne invece hanno coperte, lenzuola o camicie sul seno – e ce le trattengono con attenzione, manifestando un pudore ovviamente rivolto non a chi è a letto con loro nella finzione, ma a noi che guardiamo di là dallo schermo.

In un luogo pubblico si può indossare il più risicato dei bikini ma toglierlo per prendere il sole, rivelando un capezzolo femminile, è ancora considerato osceno. I capezzoli femminili risultano osceni anche agli occhi inumani degli algoritmi che censurano le immagini sui social network – a differenza di quelli maschili, sfoggiati liberamente da influencer e youtuber di ogni risma.

I capezzoli dei maschi, in occidente, non destano scalpore. Insisto sull’occidente perché, ho scoperto seguendo un po’ il pop coreano, in Asia è invece impudico per un ragazzo mostrarli. Il che li rende, ovviamente, assai più erotici. Quando a uno dei BTS – di solito Jungkook, il più palestrato – si slaccia per errore (?) una camicia sul palco, il pubblico va in visibilio e diffonde l’immagine dei suoi capezzoli, per mesi, sul web.

Niente a che vedere, comunque, con la costernazione che suscitò il capezzolo di Janet Jackson accidentalmente scoperto, allo show d’intermezzo del Super Bowl del 2004, da Justin Timberlake: uno scandalo su cui si pronunciarono artisti, politici e intellettuali di tre continenti, sebbene sullo stesso palco le popstar del sesso opposto si esibiscano regolarmente a petto nudo.

Fisiologiche analogie

Così spesso si invoca a vanvera l’autorità della biologia per determinare la differenza tra maschi e femmine. Due biologi dell’università dell’Oregon mi spiegano che i capezzoli, assieme alle ghiandole mammarie di cui sono appunto il “piccolo capo”, si formano indipendentemente dal sesso in qualunque embrione umano. Certo, la pubertà tende a produrre poi sviluppi diversi, ma il capezzolo maschile – scopro con stupore – è biologicamente identico a quello femminile. Può persino, in certe situazioni, produrre latte.

Nell’immaginario in cui sono cresciuto, tuttavia, è stato espunto come un inservibile orpello dalla fisiologia maschile, o ignorato: Aladdin, nel cartone Disney, non ce li ha i capezzoli, come il Ken di Barbie, e quelli incancellabili dei Backstreet Boys (o, più di recente, di Blanco, o dei ballerini depilati di Amici di Maria De Filippi) sono da considerarsi totalmente innocui, presentabili in prima serata proprio perché privi di particolare funzione e pruriginoso interesse.

È così che la mia classe, al museo, ha determinato il sesso di quel San Sebastiano: i suoi capezzoli erano appena accennati, piccoli, solo leggermente più bruni della pelle candida del petto. Regolari e discreti, innocenti come quelli di un modello di Abercrombie o di un kuros fresco di palestra, quelli del martire erano senz’altro capezzoli da maschio.

Superare le misoginie

Nella prima adolescenza mi vergognavo degli sparuti peli che cominciavano a crescermi sul petto, perché spuntavano proprio intorno ai capezzoli attirando l’attenzione (credevo, nella classica paranoia pubescente) su di essi. All’improvviso ce li avevo anch’io, come le ragazze – che dovevano però, a differenza di me, iniziare a coprirseli in spiaggia, separandosi di colpo e per sempre dall’acquatica tribù indistinta del solo “pezzo di sotto”.

A una più omogenea diffusione dei peli, con la maturità, è corrisposta una serena perdita di vergogna. Ma forse si è trattato piuttosto di una rimozione, visto il riaffiorare dell’imbarazzo sulla parola in sé. Capezzolo. Persino “corbezzolo” o “capezzale”, per associazione, mi paiono parole da ridere, freudianamente. A dirla tutta, non posso che concludere che questo mio residuo di ridarella linguistica sia una cisti della misoginia che cerco di eradicare dal mio cervello: il capezzolo mi suona buffo, mi fa arrossire, perché, istintivamente, lo penso come una cosa da femmina, che non mi riguarda.

Ho in me almeno un granello dello stesso atavico terrore maschilista che spinge la gente a legiferare su dove le donne possano allattare, per non turbare il pubblico alla vista dei loro capezzoli tabù. Il capezzolo è invece anche una cosa da maschi, e non sarà un caso se Dio medesimo, negli affreschi michelangioleschi della cappella sistina, è l’unico a portare sul torso una specie di pudica magliettona (peraltro rosa).

La specificità di questo dettaglio anatomico maschile non ha a che fare con la biologia, e non dovrebbe avere a che fare con la decenza. Ha a che fare invece con la bellezza, con un’apparenza che è la più autentica delle sostanze, come altri caratteri secondari della fisicità maschile, dalla barba ai muscoli. E infatti i ragazzi trans sono particolarmente belli quando si fotografano a torso nudo dopo la top surgery, mostrando il rimarginarsi progressivo dei loro capezzoli da maschio come in una pittura rinascimentale che si forma settimana dopo settimana.

© Riproduzione riservata