Qualche mese prima del giorno in cui abbracciai Stalin, avevo visto il suo ritratto portato in parata per le strade della capitale, durante le celebrazioni del 1° maggio, la Giornata dei lavoratori. Il rituale si ripeteva identico ogni anno. I programmi televisivi cominciavano prima e non c’erano partite sul canale iugoslavo, dunque non dovevo litigare con mio padre per l’accesso allo schermo. Potevo guardare le riprese della manifestazione ufficiale, poi lo spettacolo dei burattini seguito dal film per bambini, dopodiché tutta la famiglia usciva per una passeggiata, con gli abiti della festa, a comprare un gelato e farsi scattare un ritratto dall’unico fotografo della città, di solito in posa davanti alla fontana accanto al palazzo della Cultura.

Il 1° maggio 1990, l’ultimo che festeggiammo, fu anche il più felice. O forse lo ricordo così proprio perché fu l’ultimo. Di fatto non poteva essere stato granché spensierato. Le code per i generi di prima necessità erano diventate più lunghe, gli scaffali dei negozi sempre più vuoti. A me però non importava. In passato ero stata schizzinosa a tavola, ma adesso che stavo crescendo avevo smesso di fare storie perché in tavola c’era una feta scadente invece del più desiderabile formaggio giallo; non arricciavo più il naso davanti alla marmellata stantia, quando il miele spariva dalla dispensa.

«Prima la morale, poi il cibo», ripeteva fiduciosa la nonna, e alla fine aveva convinto anche me.

Il 5 maggio 1990, a Zagabria, Toto Cutugno vinse il festival Eurovision con Insieme, 1992. Io avevo seguito abbastanza lezioni di Lingue straniere da casa da capire il testo e canticchiare il ritornello tra me: «Sempre più liberi, noi / Non è più un sogno e non siamo più soli / Sempre più uniti noi / Dammi una mano e vedrai che voli / Insieme… Unite, unite, Europe». Solo a distanza di anni avrei scoperto che una canzone che avevo inteso come un inno alla libertà e alla collaborazione per la diffusione degli ideali socialisti in tutt’Europa in realtà parlava del trattato di Maastricht, che avrebbe consolidato il libero mercato.

Intanto l’Europa era ancora nella morsa di hooligan di ogni genere, che minavano l’ordine pubblico. Qualche mese prima la Polonia era uscita dal Patto di Varsavia. I partiti comunisti di Bulgaria e Iugoslavia avevano votato per rinunciare al proprio monopolio sul potere. Lituania e Lettonia si erano dichiarate indipendenti dall’Urss. Le truppe sovietiche erano entrate a Baku per sopprimere le proteste degli azeri. Sentii i miei genitori che parlavano di elezioni “libere” in Germania dell’Est, e chiesi a mio padre: «Perché, chi si elegge nelle elezioni non libere?». Come sempre quando una domanda lo metteva in difficoltà, lui cambiò discorso: «Non sei contenta che Nelson Mandela sia stato liberato?».

Il numero di visitatori in casa si era raddoppiato; arrivavano persino quando non c’erano partite di basket o festival di musica da guardare col Direkti. I miei genitori cominciarono a mandarmi a letto presto. Nella cortina di fumo che calava sul salotto, la gente stipata a rollarsi sigarette assumeva un’aria spettrale.

C’era costernazione nel modo in cui venivano accolti, con saluti mormorati a mezza voce, eppure non si avvertiva alcun senso di pericolo. Tutti mi sorridevano e mi davano buffetti sulle spalle, rivolgendomi le stesse domande di sempre – come andava a scuola, se ero ancora la prima della classe, se continuavo a rendere il Partito orgoglioso di me. A quelle domande rispondevo annuendo, e comunicando la buona notizia: ero appena diventata pioniera, con un anno d’anticipo rispetto ai miei coetanei. Ed ero stata scelta come rappresentante della scuola, incaricata di deporre le corone di fiori sul monumento agli eroi della Seconda guerra mondiale e di guidare i compagni nel giuramento di fedeltà al Partito. Ogni mattina, prima delle lezioni, mi mettevo sull’attenti davanti all’intera assemblea, e declamavo in tono solenne: «Pionieri di Enver! Siete pronti a combattere per la causa del Partito?». «Sempre pronti!» tuonava la risposta dei pionieri. I miei erano fieri di me, e come premio mi avevano portata in vacanza al mare.

Più tardi, quell’estate, passai due settimane al campeggio dei pionieri. La campanella ci svegliava alle sette del mattino. Le rosette servite a colazione sapevano di gomma, ma le signore della mensa erano straordinariamente gentili, persino affettuose. La mattina andavamo in spiaggia, a prendere il sole, nuotare e giocare a calcio. All’ora di pranzo ci mettevamo in fila in mensa, dove le signore ci servivano una porzione di riso, yogurt e uva, poi venivamo spediti in camerata a fare un sonnellino, o fingere di farlo, finché alle diciassette suonava di nuovo la campanella. Dopo una partita a scacchi o a ping-pong, venivamo divisi in vari gruppi di studio: matematica, scienze naturali, musica, arte e scrittura creativa. A cena ingurgitavamo al volo la minestra di verdura per precipitarci a prendere un posto al cinema all’aperto. Dopo il film restavamo a chiacchierare fino a tardi, stringendo nuove amicizie. I più grandi e audaci si innamoravano.

Le giornate erano piene di competizioni. La gara a chi faceva meglio il letto, finiva prima di mangiare, nuotava sulla distanza più lunga, conosceva a memoria più capitali del mondo, aveva letto più romanzi, sapeva risolvere le più complesse equazioni di terzo grado e suonava più strumenti. La solidarietà collettiva che i nostri insegnanti si erano prodigati a inculcarci per un anno intero andò in fumo in quelle due settimane. Fin dai primi giorni la concorrenza reciproca non era più scoraggiata ma favorita dall’alto, e calibrata in base al gruppo di età. Adesso le corse, le finte Olimpiadi e i concorsi di poesia venivano organizzati dalla direzione, ed erano una parte così intrinseca della nostra vita al campeggio che solo gli elementi più piccolo-borghesi e reazionari potevano pensare di sottrarsi. Al termine dei quindici giorni, pochissimi bambini tornavano a casa senza almeno una stelletta rossa, un gagliardetto, un attestato di merito o una medaglia, se non come singoli individui almeno come membri di una squadra. Io avevo la collezione completa.

Il mio primo campeggio dei pionieri fu anche l’ultimo mai organizzato. Il fazzoletto rosso che avevo faticato tanto a conquistare, e che indossavo con fierezza ogni giorno a scuola, si sarebbe tramutato in uno straccio usato in casa per la polvere. Le stellette, le medaglie, gli attestati, persino il titolo di “pioniere” sarebbero diventati reliquie museali, ricordi di un’altra era, frammenti di una vita vissuta da qualcun altro, chissà dove.

Lo stesso per quella vacanza al mare, la prima e l’ultima della mia famiglia. Lo stato non ne avrebbe più spesate a nessuno. Quel 1° maggio fu l’ultima volta che la classe operaia sfilò per le strade a celebrare la libertà e la democrazia.

Il 12 dicembre 1990 il mio paese fu ufficialmente proclamato uno stato multipartitico, in cui si sarebbero indette libere elezioni. Erano passati quasi dodici mesi da quando, in Romania, Ceausescu era stato fucilato mentre cantava L’Internazionale. La Guerra del Golfo era già cominciata. I pezzi del Muro venivano venduti come souvenir nei chioschi della Berlino appena riunificata. Eppure nessuno degli eventi che per un anno intero si erano susseguiti a un ritmo serrato sembrava aver scalfito il mio paese. La nottola di Minerva aveva spiccato il volo, e come al solito si era dimenticata di noi. Adesso però ci aveva ripensato, ed era tornata indietro.

da Libera. Diventare grandi alla fine della storia, Feltrinelli 2022

© Riproduzione riservata