È tornato agli inizi, Stefano Massini. Saranno contenti i lettori (e gli spettatori), tantissimi, che hanno amato prima lo spettacolo teatrale Lehman Trilogy e poi il libro che ne seguì, Qualcosa sui Lehman, una sorta di fluviale versione ampliata del copione con cui lo scrittore fiorentino ha vinto tutto, tra cui l’importantissimo Tony Award, l’Oscar del teatro americano: primo italiano a ottenerlo nell’intera storia del premio.

Lo spettacolo l’ho visto, al Piccolo di Milano, nel 2015, era l’ultima regia di Luca Ronconi (sarebbe poi stato riproposto in tutto il mondo): la sala era piena, e di quell’esperienza ricordo soprattutto un orologio a muro che impazziva, cominciava a girare vorticosamente, avanti, sempre avanti, fino a una sensazione di vertigine, la dinastia Lehman precipitava e io riuscivo a guardare solo quell’orologio che barava, spingeva con crudeltà la vicenda verso quegli esiti irrevocabili che, in generale, sappiamo avverranno e nonostante questo non vogliamo guardare.

La storia era quella dell’ascesa, caduta e declino della Lehman Brothers, il cui crollo provocò la crisi economica del 2008. Ma lo era solo in apparenza. La vera storia – sotterranea e forse più potente di quella esplicita – era quella di una famiglia di emigrati ebrei che dalla Baviera sbarcavano negli Usa, e progressivamente cambiavano religione: dagli antichi culti degli antenati passano ai nuovi dèi turbocapitalisti per poi – come in un crepuscolo wagneriano – venirne abbattuti. Storia personale e storia pubblica finiscono col bruciare nello stesso disastro.

Ragionare per analogie

Dopo, per Massini c’è stato un lungo periodo di prove letterarie minori, che né nella qualità né nel successo sono riuscite a eguagliare l’evento Lehman – dalle calciatrici di Ladies Football Club alle riscritture di Balzac e di Freud e di Bulgakov, tutto ha sempre avuto il fiato corto, lo sguardo breve e aneddotico dovuto, forse, all’influenza del linguaggio televisivo che Massini, in questi anni, ha cavalcato spesso, dalla presenza fissa a Piazza Pulita fino alla conduzione di Ricomincio da Rai Tre insieme ad Andrea Delogu.

Adesso è uscito per Einaudi il suo nuovo testo, Manhattan Project, che sarà presto anche uno spettacolo teatrale, e a leggerlo si capisce subito che Massini è finalmente tornato a raccontare quello che sa fare meglio: ebrei migranti.

E lo fa con quella sua straordinaria capacità di ragionare per analogie, di andare dal microscopico al macroscopico e viceversa in tre secondi, con un modo di fare tra l’ossessivo e lo scolastico che è il suo marchio di fabbrica.

Una storia americana

La storia di Manhattan Project è abbastanza nota (sarà anche al centro del nuovo film di Cristopher Nolan): la vicenda del progetto scientifico e politico che portò, lavorando sull’ipotesi di un uso militare della reazione a catena, all’invenzione della bomba nucleare.

Massini svolge il racconto sviluppando le storie di coloro che parteciparono attivamente a quel processo. Di personaggi, qui in Manhattan Project, ne vediamo scorrere moltissimi, noti e meno noti: Jeno Wigner, Leó Szilárd, Ed Teller, Paul Erdós, Alexander Sachs e moltissimi altri, sino al più famoso di tutti, Robert Oppenheimer, ognuno dei quali è mirabilmente tratteggiato da un tocco di penna, un tic linguistico, un carattere identitario, in una sorta di sarabanda fluviale intorno a un’apocalisse prima impensabile e poi, man mano che si procede, sempre più possibile e incombente. Sappiamo tutti come andrà a finire.

È una storia tutta americana, che al suo termine lascia un’idea che forse è più che un sospetto: la bomba atomica come il monumento statunitense per eccellenza, il vero pilastro identitario degli Stati Uniti, come le piramidi per l’Egitto o il Colosseo per l’Italia: l’America come una nazione fondata sulla Bomba.

Il destino

Tutto inizia con due uomini e una valigia che non viene mai disfatta. I due uomini sono due scienziati di Budapest, il nucleo originario del cosiddetto clan degli ungheresi, un gruppo di scienziati ebrei che per primo intuì i pericoli di un lavoro sulla reazione nucleare.

Il nesso che lega una valigia ai piedi di un letto all’esplosione del fungo atomico è la traiettoria in cui sta il vero cuore del testo: un crudele, schizofrenico gioco al rialzo, un continuo bilanciamento fra azione e reazione, attacco e difesa, la dinamica agonistica e competitiva con cui attraverso oscillazioni impercettibili si arriva a una vertiginosa escalation di cui non si riesce più a vedere le proporzioni.

Ballano i numeri, in questo testo, Massini gioca con le statistiche, e mentre dai ghetti europei si alzano le grida delle stragi, i numeri dei morti si confondono con le quelli delle equazioni matematiche e con il folle impazzire delle variabili. È, credo, la maggiore qualità del testo: mostra con chiarezza come le più spaventose apocalissi nascono sempre da un’infinità di movimenti individuali minimi, a volte persino insignificanti; i grandi eventi della storia hanno le loro radici in un sì o un no, nell’umore di un professore, nel buono o cattivo esito di un incontro, nella distrazione di qualche politico.

Ciò che, alla luce del poi, ci appare inevitabile, è stato (spesso inconsapevolmente) preparato e predisposto, secondo quella fatale incoscienza che spesso a posteriori chiamiamo destino. In Lehman Trilogy erano i soldi, ora sono gli atomi, ma la dinamica è la stessa: gli esseri umani sono aspiranti stregoni incapaci di domare le forze che essi stessi mettono in moto.

Grazia e leggerezza

C’è poi un’altra grande qualità in Manhattan Project, ed è la chiarezza. Tutto è solare, visibile, chiaro. Pochi drammaturghi più di Massini hanno introiettato la lezione (stilistica e anche politica) di Bertolt Brecht declinandola nel presente: concentrarsi sulle dinamiche storiche, indagare le coordinate, i flussi, i movimenti tettonici di un’epoca, e raccontarli in modo semplice, attraverso uno schema didattico ed esemplare, in modo che chiunque possa comprenderlo.

Questa chiarezza quasi fumettistica, accessibile a chiunque, che riporta il teatro a una sua primaria funzione di ballata orale, pura trasmissione degli eventi, credo sia il più importante contributo artistico datoci da Massini in questi anni.

Chi conosce Stefano Massini che dietro un testo del genere c’è un lavoro di anni; una montagna di studio tecnico che al momento di scrivere lui, come il suo conterraneo Cavalcanti nella lezione americana di Calvino, quando scavalca con un balzello il muretto di un cimitero – sublima in una leggerezza che, in certi momenti, appare come una straordinaria, quasi infantile forma di grazia.

Epica e grottesco

Lo fa anche qui, dove l’argomento non potrebbe essere più nero. La danza di morte intorno alla bomba diventa però presto una sarabanda di manichini ossessivi, che inizia a distorcersi in una farsa acida. L’epica cede al grottesco; i volti biblici dei protagonisti si allungano in solenni caricature; il meccanismo chapliniano si torce in una parodia inquietante man mano che la corsa si avvicina all’apocalisse, come un teatro dove la temperatura inizi progressivamente a salire: una sciarada di pazzi in cui, oggi, non è difficile proiettare le follie contemporanee. Difficile, di questi tempi, non leggere questo testo con una lama di turbamento, un disagio che potrebbe suonare come un monito: è facile, paurosamente facile che l’impensabile diventi possibile. I cataclismi che credevamo inchiodati nei libri di storia ritornano come fantasmi minacciosi, e non ci fanno dormire.

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