Da più parti e a più riprese, su giornali e blog, in riviste accademiche e saggi scientifici, si avanza il sospetto che vent’anni fa siamo entrati in uno stato di eccezione permanente. Ed è bene che tremino i polsi, perché lo stato di eccezione ha quel potere infido che si attribuisce al diavolo: convince tutti che non esiste.

Con stato di eccezione si designa infatti un colossale meccanismo di autoinganno che permette l’inverarsi di uno scenario distopico: l’intera popolazione di uno stato, per il timore di un pericolo incombente e letale (o meglio, così presentato), si piega a un baratto disperato che scambia la protezione della vita con la rinuncia alla libertà.

È per questo che chi denuncia lo stato di eccezione si riferisce a qualcosa di ben più temibile di un semplice stato di emergenza, benché nel dibattito degli ultimi due decenni si tenda a sovrapporre i due termini.

Le distinzioni

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Proviamo invece a distinguerli. Lo stato di emergenza è una condizione di crisi imprevedibile, e dunque imprevista, che chiama il governo di un paese ad approntare misure temporanee, utili al superamento della crisi e destinate a essere revocate al termine di essa. Un attacco terroristico, un disastro ecologico, una crisi del debito sovrano, una pandemia: tutte situazioni rispetto alle quali le leggi ordinarie si rivelano tanto impotenti da richiedere misure emergenziali fino allo scampato pericolo.

Con stato di eccezione si indica invece qualcosa di assai più minaccioso e pervasivo. Si tratta di un’impalpabile transizione di fase in cui l’emergenza da fine diventa mezzo: un governo utilizza surrettiziamente la legislazione di emergenza come strumento per avviare un cambiamento radicale dell’assetto istituzionale di una comunità e lo fa proprio alimentando la minaccia da cui pur sostiene di voler proteggere la cittadinanza.

Rispetto allo stato di emergenza, lo stato di eccezione segna quindi uno scarto qualitativo che comporta la deliberata manipolazione da parte delle autorità statali e la credula disposizione al raggiro da parte di cittadine e cittadini.

È per questo che chi oggi utilizza lo strumento diagnostico dello stato di eccezione per leggere una qualsiasi crisi in atto lo fa in fondo per chiamare a una doverosa presa di coscienza: non crediate – mettono in guardia costoro – che l’intento del governo sia quello di risolvere la crisi, quando la crisi è proprio ciò che gli consente di ridurre sempre più il perimetro dei vostri diritti e delle vostre libertà.

Ermeneutica del sospetto

Ed è qui che l’ipotesi dello stato di eccezione mostra la propria filiazione diretta dalla cosiddetta “ermeneutica del sospetto”: il grande diagnosta, refrattario all’inganno, sa, comprende, vede oltre, e cerca con disperata insistenza di ridestare i suoi concittadini (resi ciechi e servili da un pericolo che non c’è, e che, se c’è, di certo non ha le dimensioni che gli attribuisce la narrazione del governo).

Ma, avverte sornione Giorgio Manganelli, «una segreta, ma accanita complicità ci lega alle cose che non esistono». E lo stato di eccezione è una di quelle.

Beninteso: non ci riferiamo alle distorsioni e agli abusi che i governi potrebbero attuare per imperizia o bieco tornaconto in fase di gestione delle crisi. No, quel che ci convince molto poco è la ben più onerosa tesi avanzata dai nostrani profeti disarmati, secondo cui sarebbero proprio i governi ad alimentare le emergenze.

Tesi che non riesce a convincerci dacché a nostro avviso fondata su una svista macroscopica: si vuole con essa leggere negli avvenimenti degli ultimi due decenni (dalla reazione più che energica al terrorismo islamista alla gestione della pandemia tuttora in corso) una metamorfosi epocale che dallo stato di emergenza starebbe via via dragando le società democratiche nella palude illiberale dello stato di eccezione. E questo lucido catastrofismo pretende in tal modo di denunciare una strabiliante macchina dell’impostura che, dall’amministrazione Bush jr ai governi oggi in carica, segue fedelmente un progetto studiatissimo di asservimento dei popoli.

Ecco: noi crediamo che alla lista delle cose che non esistono vada senz’altro aggiunta la capacità di un governo – figuriamoci di più governi assieme – di ideare e realizzare un progetto di lungo corso, tantomeno uno che voglia propiziare una trasformazione palmo a palmo del modo in cui vivono intere popolazioni.

Insomma, la teoria dello stato di eccezione permanente non regge proprio perché, tra le altre cose, si aspetta troppo da complessi farraginosi e intricati come le amministrazioni statali (alcune, com’è noto, più farraginose e intricate di altre).

Sicché il problema dell’ipotesi eccezionalista è di una sovrabbondanza che sfocia in addomesticata paranoia. Chi evoca lo spettro dell’eccezione non vuole solo che siano necessari uno scrutinio costante, un’attenzione meticolosa, un plastico senso della misura quando si tratta di valutare, uno per uno, i provvedimenti che un governo adotta per gestire una crisi. Sin qui, del resto, come potremmo dissentire?

L’ipotesi grilloparlantesca tracima in teoria della cospirazione quando assegna a questi provvedimenti un’intenzionalità più che metodica e una capacità che va ben oltre quella di qualsiasi misura governativa o legge dello stato. I governi che sfruttano le emergenze per creare promettenti eccezioni avrebbero niente meno che l’obiettivo di trasformare un’intera forma di vita, di impiantarvi modelli di condotta inediti, di plasmare menti e persone perché possano interiorizzare una disposizione istintiva alla sottomissione senza protesta.

Questa quindi la natura profonda e menzognera dello stato di eccezione che si ritiene da più parti ineludibile svelare: un’orchestrazione minuziosa di un grande inganno collettivo con cui si fa credere, ma con digeribile gradualità, che l’emergenza non passerà mai, che la crisi sia destinata a durare, che le maglie strette del governo debbano farsi ancora più strette. Tutto questo, con l’aggravante di utilizzare la paura, che, ben più e meglio della minaccia esplicita, consente di modellare un’intera popolazione perché si conformi docile persino ai comandi più inusitati.

Ma siccome lo stato di emergenza è una cosa seria, non è raccomandabile a nostro avviso lasciarsi travolgere dal parossismo di una tesi tanto accattivante quanto, ci pare, campata in aria.

Verificare e argomentare

Occorre piuttosto tenersi fermi allo studio vigile della legislazione emergenziale e verificare punto per punto se essa risponde in modo efficace alla condizione di crisi che si vuole superare. Esaminare, limitare e circoscrivere ogni singolo provvedimento, non tanto per la paura di trovarsi dinanzi a un totalitarismo imberbe, quanto perché il rischio serio – e questo sì, gravosissimo – è quello dell’inefficacia e dell’inefficienza.

Contro queste afflizioni perpetue della politica statale (prima dichiarata moribonda ora temuta come onnipotente), occorre dar vita a un concorso virtuoso tra diversi attori e diverse agenzie – com’è naturale nel caso di una pandemia, in cui il sapere indispensabile alla comprensione e alla gestione degli eventi vede unita in uno sforzo comune una congerie di collettivi, ben al di là dei soli organi governativi e delle altre istituzioni statali: università, centri studio, laboratori, osservatori, organizzazioni della società civile, media, e così via.

L’emergenza è costitutivamente impossibilitata alla transizione di fase denunciata dagli eccezionalisti quando rimane visibile, discussa, partecipata, e quando sa ammettere al tavolo di lavoro, con le dovute cautele (e i dovuti dispositivi di protezione individuale), anche le forme meno razionali di dissenso, facendo sì che esse non si chiudano in una rumorosa lagnanza ma provino in qualche modo a sostanziare in modo argomentato le loro tesi.

Insomma, lo stato di emergenza, benché tutt’altro che desiderabile, può essere persino un terreno di rivivificazione politica quando esalta i processi di cooperazione democratica a ogni livello, pur comprimendone inevitabilmente tempi e dinamiche. Argomentare, ascoltare, discutere. E mai demonizzare.

Nulla di nuovo, come si vede. È la ricetta classica della filosofia. Sin dai tempi in cui la volontà di rispettare leggi ritenute ingiuste comportava la somministrazione della cicuta, non del vaccino.


Mariano Croce e Andrea Salvatore sono autori del libro Che cos’è lo stato di eccezione, edito da nottetempo e in uscita il 27 gennaio

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