Per sintetizzare quanto avvenne la mattina di sabato 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna si farà qui particolare riferimento alla sentenza che più di recente ha ripercorso nel dettaglio i fatti: quella della Corte d’assise di Bologna che ha condannato all’ergastolo (anche nel suo caso il nono) per concorso nella strage l’ex terrorista neofascista dei Nar Gilberto Cavallini.

La sentenza è stata pronunciata il 9 gennaio 2020, le motivazioni sono state depositate praticamente un anno dopo, il 7 gennaio 2021. E iniziano ricordando come fino all’11 marzo 2004, quando a Madrid avvenne l’attacco di matrice islamista a più treni locali provocando 192 morti, si sia trattato dell’attentato più sanguinoso verificatosi in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.

E comunque è a tutt’oggi il più grave registrato in Italia, con un bilancio ben superiore a quelli di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 (17 vittime) e, nel 1974, il 28 maggio in Piazza della Loggia a Brescia (8) e la notte fra il 3 e il 4 agosto sul treno Italicus (12), nella grande galleria dell’Appennino a San Benedetto Val di Sambro. A Bologna i morti furono invece 85 e addirittura 216 i feriti, molti dei quali mutilati.

La bomba

Il 2 agosto 1980 la bomba esplose in stazione alle 10.25. Era contenuta in una valigia forse lasciata su un tavolino appoggiato al muro portante della sala d’attesa della seconda classe, che era affollatissima trattandosi del primo sabato di agosto: giorno di grandi spostamenti per le vacanze, nel nodo ferroviario più trafficato d’Italia.

E infatti le vittime furono di diverse nazionalità: 76 italiani, tre tedeschi (madre e due figli), due britannici (una coppia di fidanzati ventiduenni), uno spagnolo, una svizzera, una francese e addirittura un giovane giapponese. Si chiamava Iwao Sekiguchi, aveva 20 anni, viveva nei pressi di Tokyo con i genitori, una sorella e un fratello. Era stato ammesso a una delle università più esclusive del suo paese, la Waseda, dove studiava letteratura giapponese.

Ma la sua passione erano l’arte, la lingua e le tradizioni italiane. Aveva quindi ottenuto una borsa di studio dal Centro culturale italiano a Tokyo e il 23 luglio 1980 era arrivato a Roma, dove era rimasto una settimana, trascorsa la quale era partito per Firenze. Aveva poi deciso di lasciare il capoluogo toscano per raggiungere Bologna. Iwao teneva un diario del suo viaggio in Italia: «2 agosto: sono alla stazione di Bologna. Telefono a Teresa ma non c’è. Decido quindi di andare a Venezia. Prendo il treno che parte alle 11.11. Ho preso un cestino da viaggio che ho pagato cinquemila lire. Dentro c’è carne, uova, patate, pane e vino. Mentre scrivo sto mangiando». Fu l’ultima pagina che scrisse.

L’auto distrutta

Morirono anche sei donne che lavoravano per la ditta Cigar, che si occupava della ristorazione all’interno della stazione e che aveva i suoi uffici proprio sopra alle sale d’aspetto. E tra le vittime vi furono diversi bambini, una mezza dozzina. Tra loro Manuela Gallon, 11 anni, di Bologna: aveva superato gli esami di quinta elementare e si preparava ad affrontare le scuole medie.

I genitori l’avevano accompagnata in stazione e stavano attendendo il treno che l’avrebbe portata alla colonia estiva di Dobbiaco, in Alto Adige, dove avrebbe dovuto trascorrere due settimane di vacanza. I tre si trovavano vicino alla sala d’attesa e il padre si allontanò per comprare le sigarette. Proprio in quell’istante scoppiò la bomba: Manuela rimase gravemente ferita, fu ritrovata e portata in coma all’ospedale dove morì cinque giorni dopo.

Morì anche la madre Natalia Agostini, proprio mentre si stavano svolgendo i funerali della figlia, mentre il padre rimase ferito. La bomba sterminò invece per intero la famiglia Mauri di Como: Carlo, perito meccanico di 32 anni, la moglie Anna Maria Bosio di 28 e il figlio Luca, 6 anni, che dopo l’estate avrebbe frequentato la prima elementare.

Venerdì 1 agosto erano partiti verso Marina di Mandria, in provincia di Taranto, per trascorrervi le vacanze. Nei pressi di Bologna ebbero però un incidente automobilistico: rimasero illesi, ma l’auto si guastò e venne lasciata da un meccanico a Casalecchio di Reno. La famiglia Mauri avrebbe raggiunto la Puglia in treno: arrivarono in stazione poco prima dello scoppio.

Sotto le macerie

Tremendo anche il destino della famiglia di Vito Diomede Fresa, 62 anni, direttore dell’Istituto di patologia generale alla facoltà di Medicina di Bari. Con la moglie Errica Frigerio, di 57, e il figlio Francesco Cesare, di 14, erano partiti il giorno prima dal capoluogo pugliese in treno, per evitare il traffico autostradale. Sopravvisse solo la figlia maggiore, che non era partita assieme ai genitori e al fratello.

La vittima più giovane della strage, Angela Fresu, aveva invece appena 3 anni. Abitava a Gricciano di Montespertoli, in provincia di Firenze, la sua famiglia di origine sarda era composta dalla mamma Maria, dai nonni e dai sette fratelli della mamma. Era in stazione con la mamma e due sue amiche perché stavano andando in vacanza sul lago di Garda.

L’esplosione colpì Maria, Angela e Verdiana Bivona, una delle amiche della mamma, mentre si trovavano in sala d’aspetto. Il corpo di Maria Fresu non è mai stato ricomposto. Leo Luca Marino, 24 anni, originario di Altofonte in provincia di Palermo, morì invece assieme a due sorelle, Angela e Domenica di 23 e 26 anni, e alla fidanzata Antonella Ceci, diciannovenne di Ravenna. Il giovane proveniva da una famiglia formata dai genitori e da otto figli. Dal 1975 viveva appunto a Ravenna, dove lavorava come muratore e dove aveva conosciuto Antonella.

Il 2 agosto i due ragazzi erano in stazione per attendere Angela e Domenica, le sorelle di Leo Luca con le quali sarebbero tornati a Ravenna per un breve periodo di vacanza. Il treno su cui dovevano salire era stato posticipato alle 11: vennero ritrovati tutti e quattro senza vita sotto le macerie.

Reperti dalla guerra

Lo scoppio della bomba provocò il crollo dell’ala ovest della stazione, distrusse 30 metri di pensilina del primo binario, dove stazionava il convoglio Ancona-Chiasso, e investì anche il parcheggio dei taxi appena fuori la stazione. La natura dell’ordigno venne così indicata nella perizia disposta ai tempi del primo processo sulla strage, cioè tra il 1987 e l’88: 23 chilogrammi di esplosivo, composto da una miscela di 5 chilogrammi di tritolo e T4, definita Compound B2, potenziata da 18 chilogrammi di gelatinato, nella fattispecie nitroglicerina a uso civile.

Le conoscenze e le strumentazioni scientifiche alla base delle tecniche peritali di allora sono però state negli anni ampiamente superate. E così, nel corso del processo Cavallini, una nuova perizia esplosivistica ha permesso di fissare, si legge in sentenza, «un punto fermo e non più controverso: l’esplosivo era di tipo militare e proveniva da reliquati della Seconda guerra mondiale». Per inciso: proprio recuperando dai fondali del lago di Garda bombe inesplose, la destra eversiva (da Ordine nuovo in giù) ha avuto per anni a disposizione materiale di quel tipo.

Si trattava in particolare di una quindicina di chilogrammi di Compound B (principalmente tritolo e T4, con tracce di Hmx), ma forse anche qualcosa meno, una quantità comunque tale da stare anche in una valigetta modello ventiquattrore, che quindi – recita la sentenza Cavallini – «poteva essere tranquillamente trasportata da una sola persona».

La perizia

La perizia, svolta da Danilo Coppe (perito esplosivista e geominerario di accreditata competenza) e dal tenente colonnello dei carabinieri Adolfo Gregori (comandante della sezione chimica - esplosivi e infiammabili del Ris di Roma) su incarico della stessa Corte d’assise, ha inoltre stabilito che l’esplosivo richiedeva “INEVITABILMENTE” (scritto proprio maiuscolo) un detonatore, con sistema di innesco regolato da un timer (un orologio o una sveglia, con quadrante in plastica), e che è pressoché da escludere che l’esplosione sia stata accidentale: anzi, ad avviso della Corte, è «da escludere completamente».

La perizia Coppe a un certo punto dettaglia anche una comparazione tra l’esplosivo usato a Bologna e quelli di tutte le altre stragi, in una sintetica tabella dove a proposito dell’autobomba di Peteano del 31 maggio 1972 (l’attentato degli ordinovisti friulani Vincenzo Vinciguerra, Carlo Cicuttini e Ivano Boccaccio, in cui morirono tre carabinieri) si parla di Semtex: cioè l’esplosivo riconducibile a terrorismo di sinistra individuato negli anni Ottanta da una perizia notoriamente falsissima, firmata da quel Marco Morin legato a Ordine nuovo che non a caso, proprio per quella perizia, è stato condannato a 3 anni e 4 mesi per reati che oggi definiremmo di depistaggio (allora il Codice non lo prevedeva e la condanna fu per favoreggiamento e peculato). Si tratta certamente di una svista: con le perizie occorre sempre andare con i piedi di piombo. Specie con quelle che riguardano la strage di Bologna.


Questo articolo è un estratto dal libro La strage di Bologna. Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito (Feltrinelli, 336 pagine, 20 euro), in libreria da martedì 17 gennaio 2023

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