La tv come liturgia, la parola come espediente, lo spettacolo come esito assicurato. Maurizio Costanzo, scomparso venerdì all’età di 84 anni, è stato l’espressione più vivida di una televisione costruita sulla reiterazione, sul senso di affidabilità, sulla formula come tecnica espressiva potente, capace di creare abitudine e dispensare certezze nello spettatore.

Con il suo stile inconfondibile, talvolta sornione ma efficacemente ironico e mordace, Costanzo può essere considerato il “gran cerimoniere” del talk-show all’italiana, colui che lo ha importato prendendolo a prestito dagli Stati Uniti, ma dandogli una fisionomia intimamente nazionale, capace di mutare pelle con i mutamenti sociali del paese, spesso intercettandoli e guidandoli.

L’invenzione del talk show

Se il Maurizio Costanzo Show è stato il suo palcoscenico più prestigioso, il programma che metonimicamente ha sovrapposto contenuto e contenitore, format e conduttore, al giornalista romano si deve ben prima l’invenzione del genere che è poi degenerato nei decenni successivi nella trasformazione dei linguaggi e dei canoni del dibattito intorno alla politica e all’attualità.

Nel 1976, in anticipo sul “riflusso” e quel ripiegamento nel privato che caratterizzò la società italiana (e di riflesso, il sistema dei media), Costanzo portò in Rai Bontà loro, l’antesignano dei programmi di parola della tv nazionale, il luogo in cui il “privato”, il potere, i sentimenti venivano scandagliati con quell’aria leggera da rotocalco, da pagine di un settimanale, ma con una professionalità puntuale nei tempi, nei toni, nel casting delle singole puntate-chiacchierate.

Bontà loro era un programma che, in un servizio pubblico alle prese con i primi segnali di offensiva delle tv commerciali, poteva mettere insieme a disquisire Anita Ekberg, un coltivatore diretto della profonda provincia italiana e un filosofo “cibernetico” come Silvio Ceccato, tanto per citare l’esempio reale di una puntata; il tutto senza apparire forzoso, con una scenografia minimale (la finestra che si chiudeva e apriva a inizio e fine puntata) che valorizzava i volti e le storie degli ospiti, con una programmazione che nobilitava una fascia come la seconda serata fino a quel momento pressoché inesplorata.

Sullo sgabello

Dopo altri due programmi simili nell’impostazione come Acquario e Grand’Italia, nel 1982 (fu quello il periodo della scoperta del suo nominativo negli elenchi della P2), Costanzo passò alla Fininvest, segnando una stagione di successo e radicamento nell’immaginario popolare.

Con un passato da ideatore e autore di diversi programmi televisivi e radiofonici, da paroliere di canzoni popolarissime, da sceneggiatore cinematografico (per Pupi Avati, tra gli altri), Costanzo aveva ben chiaro come maneggiare il confronto, decantare le aspettative, affondare in cerca dell’applauso.

Il romanesco come cifra distintiva, la posizione dello sgabello rispetto all’ospite come autentica prossemica autoriale, il salotto televisivo e il palcoscenico del Parioli come spazi di cultura a più livelli, di “gossip” e “frivolezze”, ma anche e persino di denuncia e impegno civile.

Un’epoca televisiva

È stato probabilmente uno degli artefici più evidenti della “neotelevisione”, di quella commistione di generi e approcci, di una televisione che cominciava a bastare a sé stessa, a compiacersi dei propri recinti, a solleticare gli istinti più nascosti.

Con aura da talent scout, il conduttore romano può fregiarsi di aver lanciato diversi volti al grande pubblico, da Vittorio Sgarbi a Giobbe Covatta, da Gianni Fantoni a Enrico Brignano. Ma il Maurizio Costanzo Show è stato anche il programma che con le ospitate di Giovanni Falcone ha “popolarizzato” la lotta alla mafia, provando a renderla materia di cittadinanza quotidiana e pagando con l’attentato del 1993 al quale scampò fortuitamente. E che con i celebri interventi di Carmelo Bene ha provato a sublimare l’arte (e la sua critica) sul piccolo schermo.  

In fondo, la tv di Costanzo può essere considerata il compendio di un’epoca televisiva, quella di un generalismo che attirava a sé tutte le schegge della società, filtrandole e riassemblandole; una televisione ordinaria e scontata che nasceva dal rigore professionale e da una rassicurante capacità di eclettismo e mimetismo.  

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