Già solo se traducessimo in italiano il titolo, L’isola delle tentazioni (con quel retrogusto cattolico, il serpente eccetera), capiremmo facilmente che dietro lo spettacolo di corpi piuttosto ben fatti e seminudi sulle spiagge sarde si nasconde un’ambizione educativa. Uomini e donne, la rivista spin-off del programma condotto da Maria De Filippi, raccomanda addirittura un “metodo Temptation”. Il metodo consiste nel mettere alla prova l’amore di coppia, contrastando la routine e risvegliando la passione.

Temptation Island è la trasmissione estiva prodotta dalla Fascino, l’azienda fondata per l’appunto da Maurizio Costanzo e De Filippi, e con Uomini e donne c’è un rapporto di porte girevoli: molti tentatori e tentatrici provengono da lì, e non è improbabile che lì possano andare i più belli tra i concorrenti. Tra i lavori precari a cui i venti-trentenni sono costretti, quello di personaggio televisivo non è da buttar via. Il sadismo autoriale si esercita nel titillare, con diabolica insistenza, ogni più piccolo spunto di gelosia, non solo mostrando a lui la fidanzata abbracciata a un altro e viceversa, ma scegliendo nel montaggio le dichiarazioni dell’uno o dell’altra che possono fare più male; gelosia non solamente sessuale quindi, ma della privacy violata, della confidenza negata al partner e concessa al primo venuto.

C’è perfino una gelosia in negativo: ma chi si crede di essere per non osare nessun approccio, vuol proprio dimostrare che lui sarebbe il santo (o: che lei sarebbe la santa) inchiodando me al ruolo di infedele?

Viaggio nei sentimenti

Lo slogan continuamente sbandierato per definire il programma è “un viaggio nei sentimenti”; ma più che un viaggio si tratta di una sonda, o meglio di una lente d’ingrandimento posta su un momento specifico e del tutto eccezionale, in condizioni di forzatura evidenti. Lo spazio è una bolla (quest’estate anche anti-Covid) dove non arrivano né la cronaca né la quotidianità familiare, solo giochi e seduzione; il tempo è delimitato dal format: tre settimane, ma già dopo la prima qualcosa deve accadere altrimenti lo spettacolo ristagna, già qualche coppia deve scoppiare. È la stessa artificialità spazio-temporale in cui ci conducono i romanzieri coi loro racconti, ma in questa struttura fittizia si macinano (o si dovrebbero macinare) vite vere. Per gli spettatori è un apparato che è supposto scatenare meccanismi di identificazione come per i romanzi, ma anche (perché no?) istruire sullo stato dei sentimenti di coppia oggi in Italia.

E allora partiamo dall’imparare: che cosa ci insegna il casting di quest’anno, da un punto di vista psicologico e soprattutto sociologico? Intanto che in quattro coppie su sei la donna è maggiore d’età dell’uomo (un clamoroso 40-21, ma pure un 31-24, e un 34-28, più un modesto 31-30), dieci anni fa non sarebbe successo. E poi è sempre la donna (almeno così dice il conduttore Filippo Bisciglia, ogni anno meno imbranato) che scrive per partecipare al programma; è lei che sfida l’uomo a “mettersi in gioco” – è lei l’inquieta, l’insoddisfatta, mentre generalmente per l’uomo il trantran di coppia andrebbe già bene anche così. Secondo punto, la convivenza pre-matrimoniale è un dato acquisito nel cento per cento dei casi; questo chiaramente l’hanno voluto gli autori, perché solo nella convivenza saltano fuori le magagne ma il programma non vorrebbe mai passare per rovina-famiglie; il matrimonio può essere un lieto fine, non certo un’istituzione da mettere in crisi. Terzo dato, anche gli uomini piangono, meno delle donne ma quando lo fanno conta di più.

Stereotipi

La questione si fa più delicata a proposito dell’identificarsi con questo o con quella concorrente: probabilmente l’identificazione risulta più facile a chi (per appiattimento social, o per innate scarse capacità di introspezione) è abituato agli stereotipi. Il panorama del programma, visto a una certa distanza, non è molto diverso da quello che si ricava da una qualunque posta del cuore, o dalle battute di un comico mediocre: i maschi non sanno mettere in ordine la casa, non piegano le camicie, non alzano la tavoletta del bagno; le donne danno troppa importanza alle frivolezze, per il matrimonio pretendono una cerimonia esagerata; gli uomini per orgoglio virile mascherano le défaillances; le donne analizzano, parlano e parlano, gli uomini prendono a pugni il muro o a calci il divano.

Stereotipia pure nel parlato, e allora vai con «devo pensare a me stessa, aumentare la mia autostima», «ho capito l’importanza del chiedere scusa», «mi sento sbagliata», «mi sono azzerato per stare con lei». Altro che viaggio nei sentimenti, sembra una passeggiata nel già ascoltato.

Qualcosa di inedito vien fuori quando si parla di soldi: rovesciando il cliché, ecco una ragazza che rinfaccia «io mi mantengo da sola, lui lo mantiene sua nonna da trent’anni»; di soldi e di lavoro si discute parecchio, mentre in queste convivenze pare che di sesso se ne faccia pochissimo, meno di quanto sarebbe contemplato nei romanzi rosa.

Perbenismo e distruzione

La liturgia del programma (i riassuntini continui, il pinnettu, i falò) tende a omologare ogni storia sul perbenismo dominante: le donne devono apparire come la parte forte, coraggiosa, mentre i maschi sono quelli inaffidabili, perennemente sotto accusa; con loro gli autori si permettono il registro del ridicolo, come nella gelosia iperbolica del ragazzetto che sta con la quarantenne, o nella macchietta del palestrato narcisista che pretende pasti speciali.

Eppure alla fine tanto vincitrici le donne non sono: la quarantenne è lei che decide di troncare, ma il ragazzetto si allontana dicendo «ora esco da qua e sto meglio di prima», e cammina a spalle libere come Chéri nel finale del romanzo di Colette. Prima di andarsene, il ragazzetto racconta un sogno devastante: ha sognato lei deforme, «con un braccio tronco»; dopo che l’ha vista civettare coi tentatori lei gli si è smontata in testa come un automa rotto; lui ha fatto sesso con una coetanea ma, precisa, «non è stata una ripicca, è stata una distruzione». Perfino gli autori saranno rimasti sorpresi, loro che senza cattive intenzioni, con un occhio all’audience, si sono fatti un’idea dei sentimenti come di una media comune, come se fossero i cartelli segnaletici dei sentimenti. Poi ci sono i due palermitani, lui bello come il sole e malandrino, lei che lo ama senza riparo – per ora lei ha trovato il coraggio di lasciarlo, ma lui sta tornando alla carica e scommetto che (prima o dopo la fine del programma) lei se lo riprenderà.

Oltre la logica

Mentre le due edizioni vip erano pura manfrina, perché i vip non possono permettersi di fare brutta figura, l’edizione nip di quest’anno non è priva di spiragli di autenticità. Si annidano proprio nella banalità creaturale delle reazioni: chi di noi non ha mentito a sé stesso per attenuare i morsi della gelosia, non si è detto «io valgo molto più di quello là» mentre non era vero, non ha giurato di schifare l’amato, o l’amata, proprio nel momento in cui l’amava di più? Il vocabolario si impoverisce, ci riduciamo a ripetere come dei cretini «perché, perché fa così, perché?». È ciò che grida la brindisina che si crede brutta, «a lei le asciuga le lacrime e a me mi fa morire»; il milanese fisicato si allena bofonchiando «io quello me lo compro, mi fomento»; la palermitana protesta «ora capisco pure di calcio, di più che devo fare?»; il marchigiano nel momento della soluzione positiva esprime la propria esultanza con un dialettale «te darei ‘na testata, guarda».

È qui, in queste scivolate della logica e della lingua, che le costruzioni edificanti degli autori crollano e i protagonisti, per brevi istanti, possono davvero ricordare dei personaggi di romanzo.

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