Per comprendere quanto Prato sia cinese basta uno solo dato diffuso a inizio 2024. Qui il cognome più diffuso è Chen, il secondo Hu, il terzo Lin. Il primo cognome italiano (Gori) è al dodicesimo posto. Prato ha una popolazione di circa 200 mila abitanti e il 15 per cento di questi è di nazionalità cinese.

Si tratta di numeri ufficiali (probabilmente non tengono conto del sommerso) che la rendono la comunità cinese più grande d’Italia. Quasi tutti i cinesi di Prato arrivano da Wenzhou, un’immensa metropoli affacciata sul mare che – come vedremo – anche a decine di migliaia di chilometri di distanza influisce sul commercio e sui menù della cucina sinopratese.

Via Pistoiese

Insomma: se vuoi mangiare veramente cinese, senza andare in Cina, Prato è il posto giusto. Tutto si sviluppa attorno a via Pistoiese che da mezzogiorno è un continuo viavai di operai che escono dalle fabbriche tessili (la principale occupazione dei cinesi di Prato) per riversarsi in ristoranti, tavole calde e supermercati.

Appesi in aria su dei cavi tirati tra un palazzo e l’altro ci sono ancora gli addobbi del capodanno cinese. Il modo più semplice per arrivarci è passare da fuori le mura, man mano che ci si avvicina le insegne, i cartelli e le indicazioni iniziano a essere scritte in doppia lingua. Tutto è in doppia lingua, tranne a Chinatown. Ad esempio il Dim Sum House (via Pistoiese 229) è un locale che ha un’insegna (e un menù esterno) esclusivamente cinese. Non lo stavo cercando, mi ci sono imbattuto. Entro e prendo un panino cinese al vapore ripieno di manzo, maiale e verza. Nulla di memorabile, ma perfetto per una pausa pranzo, 90 centesimi.

Non mi fermo molto perché mi sta aspettando Cosimo Yang che con sua moglie ha aperto Okay Lab (Via Luigi Borgioli, 1). Di lui colpisce la voglia di fare e di raccontare la sua passione per il cibo. Il ristorante è moderno e traspare una forte attenzione verso la comunicazione. Ogni piatto è servito con delle porzioni di guanti monouso riposti in confezioni quadrate identiche a quelle dei preservativi.

«Ci piace stupire», dice Cosimo, che nel suo locale propone quasi esclusivamente del pollo fritto rivisitato. Lo ha assaggiato per la prima volta nel nord-est del paese, al confine con la Corea del Nord. Non aveva mai sentito un sapore simile e decise di restare qualche mese per imparare le tecniche di impanatura e marinatura, frutto di secoli di contaminazioni tra il suo paese e la Corea. Tornato in Italia (dopo essere stato a Shanghai a studiare le combinazioni di Bubble Tea da abbinare al pollo fritto) deve trovare un punto di incontro tra la tradizione cinese e coreana e le materie prime italiane. Il risultato? Il miglior pollo fritto che potrete mangiare a Prato (lontanissimo dall’idea di fast food), nonostante sia anche un piatto fondante della tradizione culinaria dell'appennino tosco emiliano. Costo di una porzione piccola (sette pezzi misti di pollo fritto) circa dieci euro.

A cena mi attende il ristorante Ciao (Via Pistoiese, 146) che è specializzato in Hot Pot, una pentola di brodo in ebollizione messa in condivisione al centro del tavolo dove poter cucinare tutto quello che si vuole. Un locale abbastanza voga sia per il cibo, sia per il karaoke. Arrivo senza prenotazione, ma è presto e prometto di mangiare veloce. Ricevo un menù con gli ingredienti, il prezzo e i tempi di cottura. La scelta è variegata: tanti tipi di brodo (classico, piccante, di pomodoro, di funghi, maiale, agnello, multi gusto) tutte le paste possibili e poi la carne, il pesce e le verdure.

Per quanto la tentazione di cuocere nel mio brodo cervella, interiora e trachee sia fortissima, scelgo un brodo classico accompagnato con dei vermicelli di patate dolci e poi verdure miste e rotolini di manzo e di suino. L’esperienza è interessante e le materie prime buone. Senza esagerare con le porzioni, spendo 40 euro. Uscendo noto un enorme bancone del pesce, vorrei capire come mai così tanto pesce esposto, ma l’evidente barriera linguistica impedisce ulteriori approfondimenti.

Salmone e granchio blu

La risposta ce l’ha Matteo Burioni, fondatore dell’Associazione Orientiamoci in Cina e del festival Seta che racconta a Prato la Cina contemporanea. Mi spiega che la maggior parte dei cinesi di Prato arriva da Wenzhou, una metropoli di oltre dieci milioni di abitanti che si affaccia sul mar della Cina e dove il pesce rappresenta una grande tradizione. Non è un caso che su via Pistoiese ci siano tantissime pescherie.

Una in particolare, si chiama Adriatic, si rifornisce ogni giorno al mercato del pesce di Rimini. E Prato negli ultimi tempi è stato uno dei posti dove è stato più facile comprare e mangiare il tanto famoso, detestato e (per i cinesi) prelibato granchio blu. Una caratteristica delle pescherie cinesi di Prato sono le teste di pesce esposte. Costano pochissimo, spiega Burioni, ma danno sapore ai brodi e se scavate sotto le guance contengono tanta carne. Il giorno seguente ho appuntamento in un ristorante cinese che si chiama... Ristorante cinese (Via Filzi, 58); mi è stato raccomandato perché sarebbe l’unico capace di mantenere ancora intatti i profumi e i sapori tipici di Wenzhou.

Mi suggeriscono di provare piatti poveri e ricchi di verdure; ordino spaghetti saltati con verdure e gamberetti. Non conosco i profumi e i sapori di Wenzhou, ma questo è il miglior piatto di spaghetti cinesi mai mangiato in vita mia (circa 10 euro). Prima di chiudere questa due giorni in giro per Chinatown noto un bar che cattura la mia attenzione.

Si chiama Lo scalino e da fuori promette piatti tipici toscani. Fa strano vederlo da solo, lì in mezzo. Un ragazzo dietro al bancone mi dice che lavorano molto con gli uffici delle vie circostanti e che la loro clientela, cinesi compresi, è felice di mangiare piatti della tradizione toscana. Qui si sta bene e nessuno toglie il lavoro a nessuno, afferma. Non faccio altre domande, chiedo solo un caffè. Alle mie spalle via Pistoiese continua senza sosta a sfornare cibo e abiti fast fashion.

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