«Nato nel 1944 nell’Allgäu, impiegai non poco tempo per rendermi conto di quale distruzione presiedette all’inizio della mia vita e per comprenderne il significato». Bastano queste poche righe per racchiudere il più importante scrittore del XXI secolo? No, certo che no: eppure in quello che sembra un minimale resumé autobiografico all’inizio di una presentazione davanti al Collegio dell’Accademia tedesca per la lingua e la poesia – e ora raccolto nel volume Tessiture di sogno appena pubblicato da Adelphi – c’è nascosto, avvolto tra le pieghe del non detto e la scelte delle parole, tanto di W. G. Sebald.

Come nei suoi splendidi libri pieni di deviazioni e digressioni, di subordinate avvolgenti come il fumo che si solleva dalle ceneri di un fuoco ormai spento, bisogna percorrere questi sentieri, questi malinconici “anelli di Saturno”, e scoprirne i segreti. 

L’ombra lunga

Intanto iniziamo, per così dire, dalla fine: l’ho definito il più importante scrittore del XXI secolo, nonostante questo secolo non l’abbia praticamente vissuto: è morto in un incidente d’auto il 14 dicembre 2001. Inoltre, nonostante si sia sempre pensato come scrittore, Sebald ha esordito solo nel 1988, a quarantaquattro anni, con il poemetto Secondo natura e soprattutto nel 1990 con Vertigini, la prima delle sue “prose”, così definiva questi indefinibili libri a metà tra romanzo, autofiction, diario, saggio, racconto di viaggio e di natura, raccolte fotografiche (pubblicati, come tutti gli altri, da Adelphi nella splendida versione di Ada Vigliani, insostituibile “voce” italiana di Sebald).

L’ultimo libro pubblicato in vita è Austerlitz, proprio del 2001. Quindi: una tarda ma intensa produzione letteraria durata più o meno un decennio. Eppure è bastata per influenzare, se non di fatto generare, la letteratura più interessante, nuova e stimolante dei due decenni successivi. L’ombra lunga sebaldiana si proietta sulle sagome di Teju Cole, Ben Lerner, Jenny Erpenbeck, Rachel Cusk, Geoff Dyer (anche se si offese molto una volta che fu definito sebaldiano, dato che quel tipo di scrittura a suo dire la praticava già da prima), Dušan Šarotar (autore sloveno di cui in italiano si può leggere l’intenso Panorama, Keller editore), per rimanere agli stranieri maggiori. La novità della sua scrittura, il senso di libertà e l’insofferenza per la forma romanzo, ne fanno allora uno scrittore pienamente contemporaneo, in grado di illuminare angosce e inquietudini del nostro presente tra guerre, rigurgiti ideologici, perdita di memoria collettiva e individuale. E questo nonostante i suoi temi – o forse meglio, i suoi fantasmi – abitino, infestino, completamente il Novecento.

Nato nella distruzione

The shell plant at Hamburg, one of the biggest industries of the city, was hit by more than 9,000 bombs during the war. The bomb-razed installations in March 1948. (AP Photo)

Torniamo alla frase iniziale allora. Sebald nasce nel 1944, quindi nelle ore più buie della Seconda guerra mondiale: nel suo cielo zodiacale brillano le tenebrose costellazioni della distruzione, delle rovine, delle macerie di un continente ma soprattutto di un popolo, quello tedesco, che la distruzione l’ha vista da vicino, che l’ha, nel pensiero dello scrittore, fomentata o quanto meno ne è stata complice.

La Germania «finché a ventun anni non la lasciai, rimase per me un territorio largamente sconosciuto, in un certo senso “fuori mano” e non proprio rassicurante (…) Fu solo quando mi trasferii in Svizzera nel 1965 e poi in Inghilterra l’anno successivo che, propiziate dalla lontananza, cominciarono a prender forma in me alcune riflessioni sulla mia patria, e tali riflessioni, durante gli oltre sei lustri che ormai ho trascorso all’estero, si sono fatte via via più complesse. La Repubblica tedesca ha per me, nell’insieme, qualcosa di curiosamente irreale, una sorta di déjà-vu che pare non voler finire mai». 

Il trauma del Novecento

FILE - In this May 7, 1945 file photo the gutted remains of Berlin's Reichstag building. Nazi commanders signed their surrender to Allied forces in a French schoolhouse 75 years ago this week, ending World War II in Europe and the Holocaust. Unlike the mass street celebrations that greeted this momentous news in 1945, surviving veterans are marking V-E Day this year in virus confinement, sharing memories with loved ones, instead of in the company of comrades on public parade. (AP Photo/Henry Griffin, File)

Trasferitosi in Inghilterra per studiare e poi per insegnarvi letteratura tedesca, Sebald si farà sempre chiamare amichevolmente Max: quasi a voler cancellare il tedeschissimo Winfried Georg. Da quale peso di responsabilità siamo caricati fin dalla nascita? Quali sono le colpe dei genitori e del paese in cui siamo nati? Il padre di Sebald fu ufficiale della Wehrmacht e poi prigioniero di guerra fino al 1947.

La Storia è un incubo da cui i personaggi di Sebald si risvegliano a fatica, ne restano avviluppati come tra le spire di un incubo ossessivo: i suoi libri, sotto il passo tranquillo di una prosa di primo acchito tradizionale, sono attraversati dal riemergere sofferto di memorie rimosse, frantumati dal ripresentarsi del trauma sotto le mentite spoglie di un incontro fortuito o della scoperta casuale di una vecchia fotografia. La violenza che sempre riposa appena sotto la superficie del quotidiano riemerge perturbante e depressiva. 

Gli anelli di Saturno è la descrizione di un itinerario nella campagna del Suffolk: ma il racconto del paesaggio inglese, di sonnacchiose cittadine costiere, di antiche dimore in decadenza, con incedere saturnino e divagante sembra prima perdersi in lontani aneddoti su personaggi bizzarri e segnati dalla malinconia, poi, magari per l’apparizione di un rottame di guerra tra gli arbusti o delle rovine di una fabbrica di armamenti o ancora il ricordo della tratta degli schiavi in un museo, ritornano gli spettri di una Storia fatta soprattutto di orrore, sopraffazione dell’uomo sull’uomo, di rovine spacciate per civiltà.

Memoria prenatale

Großbritannien: Kinder polnischer Juden aus dem Gebiet zwischen Deutschland und Polen bei Ihrer Ankunft mit der "Warschau" in London. Aufn. Februar 1939

«In quel polveroso esilio inglese, per ricordarmi che non sarei mai sfuggito alla mia storia prenatale». La Germania, la storia familiare, il passato che precede la nostra nascita è il paese straniero da cui Sebald fuggirà tutta la vita. In Austerlitz, forse il suo capolavoro, Jacques Austerlitz è uno studioso di architettura, specializzato in fortezze, edifici militari, stazioni, dalla cultura enciclopedica ed eccentrica, dall’eloquio avvolgente e forbito, minato però da una tristezza che lentamente l’inghiotte e che nasce dal non sapere letteralmente chi è: la sua origine gli è sconosciuta.

Scoprirà attraverso una serie di indagini, tra fotografie non sviluppate e documenti semi-cancellati, che era uno di quei bambini che durante la guerra giungevano a Londra dall’Europa centrale mentre i loro genitori venivano deportati nei campi di sterminio. Il buco nero nella vita di Austerlitz, come in quella bellissima poesia di Primo Levi intitolata appunto Le stelle nere («L’ordine donde il cosmo traeva nome è sciolto / Le legioni celesti sono un groviglio di mostri»), è la Shoah, lo sterminio degli ebrei d’Europa.

Parla, silenzio

Come ricorda la studiosa Carole Angier nella biografia Speak, Silence uscita l’anno scorso in Inghilterra e negli Usa, proprio con Austerlitz vennero fuori alcune polemiche quando si scoprì che le immagini con cui Sebald intrecciava la scrittura, e che fanno parte della costruzione narrativa e dello stile tanto quanto le parole, non coincidevano con le persone raccontate, ma erano trovate nei mercatini o costruite appositamente dall’autore.

Polemiche pretestuose e tipiche di un certo puritanesimo anglosassone: il fatto che siano o meno autentiche non toglie che siano sempre e comunque “vere” perché appartengono al dominio della letteratura, non a quello del documento. Lo scrittore che ricorre all’autobiografia, che indaga quello che Nabokov definiva “abisso prenatale”, il tempo che precede e decide la nostra nascita, anche quando cambia qualche dato, anche quando mente, quando silenzia qualcosa – anzi forse soprattutto nei silenzi e nelle imbellature – dice la sua verità.

Non è un caso che la biografia di Angier riprenda nel titolo l’autobiografia di Nabokov, Parla, ricordo («La culla dondola sopra un abisso e il buonsenso ci dice che la nostra esistenza è solo un breve spiraglio di luce tra due eternità fatte di tenebra. Sebbene siano una coppia di gemelli assolutamente identici, l’uomo, di regola, guarda all’abisso prenatale con più calma rispetto a quello verso cui è diretto (a circa quattrocentomila battiti cardiaci l’ora)»).

A Nabokov è dedicato proprio uno dei saggi raccolti in Tessiture di sogno; qui Sebald, quasi a intrecciare una tessitura con il grande russo, scrive: «Occuparsi del passato, il proprio e quello dei propri cari defunti, è ciò che fantasmi e scrittori hanno in comune». Non solo condividevano questa natura incerta, perennemente indecisa, almeno nel caso di Sebald, tra quella di scrittore e quella di fantasma.

Condividevano anche un comune destino di esilio: obbligato e definitivo per Nabokov, fuggito dalla Russia della Rivoluzione bolscevica, facoltativo ma fortemente voluto quello di Sebald (che però, a differenza di Nabokov e di un altro grande esiliato come Conrad, manterrà la sua lingua madre come lingua letteraria). «Poiché vivo in Inghilterra soltanto come ospite, oscillo anche lassù fra sentimenti di appartenenza e sentimenti di spaesamento»: fantasma, spaesato, ospite.

Gli ospiti

Coast line of northern Corsica at Cap Corse peninsula. | usage worldwide Photo by: Thomas Muncke/picture-alliance/dpa/AP Images

Leggendo i testi raccolti in Tessiture di sogno (molto belli quelli dedicati alla Corsica, alle sue «alpi sul mare», al suo culto dei morti, alla sua storia e ai suoi cimiteri: probabilmente sono un primo abbozzo del libro successivo che non ha fatto in tempo a scrivere) mi tornavano in mente le parole di un altro scrittore esiliato (dalla Libia in cui è nato e da cui è dovuto fuggire con la famiglia dopo l’ascesa di Gheddafi), ossessionato dai fantasmi, dall’“abisso prenatale” e dalla storia dei genitori (in particolare del padre, scomparso nelle celle del regime), e cioè Hisham Matar.

In un suo testo dedicato ad altri due esuli, Conrad e il critico palestinese Edward Said, riflette proprio sullo stato dell’ospite: «Il posto di un ospite è sulla soglia, lungo il confine. L’ospite si trova nel punto di conversione, un luogo vertiginoso e annebbiante dove è facile smarrirsi».

Raccontando di Conrad, che visse in Inghilterra per decenni e regalò alla letteratura di quel paese tra i più grandi romanzi in lingua inglese, Matar ricorda come alla fine l’autore polacco si sentirà sempre ospite, non accettato fino in fondo: «Il suo errore principale, pensa, è aver vissuto quasi sempre una doppia vita, aver creduto di poter essere amato per quello che era. Cosa bisogna fare per essere amati per quello che siamo? Quali sono gli ostacoli? E cosa succede quando non siamo amati per quello che siamo? Quali sono le cose giuste per le quali dovremmo essere amati? Con che tipo di amore possiamo vivere?». 

Il fantasma trova casa

Quando saremo amati per ciò che siamo? Quando saremo riconosciuti, visti? Quando smetteremo di essere fantasmi abitati da altri fantasmi e daremo loro una dimora, un nome, un commiato. C’è qualcosa di profondamente commovente nel fatto che l’ultimo testo di Tessiture di sogno sia proprio il discorso tenuto da Sebald al Collegio dell’Accademia tedesca per la lingua e la poesia: qui confessa quel sentimento di impostura che è il compagno segreto, il clandestino che accompagna ogni esiliato, ogni ospite (e forse ogni fantasma), ma anche ogni vero scrittore. «Mi è già accaduto in sogno di venire smascherato, con l’accusa di aver tradito la patria e di essere un millantatore. Anche e soprattutto a causa di simili paure, l’odierna accoglienza in questa Accademia è per me un’insperata e gradita forma di legittimazione».

Come se dopo un decennio di produzione letteraria altissima, fosse ancora alla ricerca di una legittimazione, di un riconoscimento, dalla sua patria, dalla sua lingua. Ma se la vera legittimazione di uno scrittore è l’eredità che lascia nei libri degli altri, nessuno oggi può dubitare della grandezza di W. G. Sebald.

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