Dai musei Smithsonian alla censura delle mostre più scomode: la Casa Bianca punta a riscrivere il racconto culturale americano, colpendo opere e istituzioni accusate di “tradire” lo spirito patriottico. A partire da una lista di “opere poco gradite”
La guerra contro il “politicamente corretto” e l’ideologia woke di Donald Trump riguarda ora anche i musei, accusati di riscrivere la storia americana in maniera troppo “poco patriottica”. Un comunicato appena diffuso dalla Casa Bianca assomiglia a una lista d’epurazione: mette insieme le opere che sono sgradite al presidente.
L’intento è proprio di dimostrare che Trump abbia ragione. Facendo vedere come alcuni artisti avrebbero accentuato discorsi di equità e inclusione in modo ossessivo, facendo così venir meno – secondo Trump – l’aspetto identitario, che tanto peso ha avuto nella storia degli Stati Uniti.
Ma il punto è che siamo ormai usciti dalla battaglia teoretica o ideologica: la guerra culturale non è combattuta solo sul piano filosofico, ma ha già profondi effetti culturali.
È ad esempio il caso di Amy Sherald, famosa anche per essere stata la ritrattista della first lady Michelle Obama. Aveva in programma una mostra personale, intitolata American Sublime, alla National Portrait Gallery del Smithsonian, il più grande complesso museale americano. Fra le opere ci sarebbe stata anche una di quelle più invise a Trump: la raffigurazione della Statua della Libertà come una donna nera e transgender.
Sherald ha ritirato la sua mostra perché è venuta a sapere che la direzione del museo stava considerando di escludere o modificare la rappresentazione, per timore di suscitare le ire dell’amministrazione Trump. Fra le ipotesi, si era immaginato di affiancare al dipinto un video con reazioni, anche ostili, all’opera.
L’amministrazione Trump ha rivendicato il proprio ruolo nel promuovere un’espressione artistica più unificante e patriottica. Secondo Lindsey Halligan, assistente speciale alla Casa Bianca, il dipinto è «una reinterpretazione divisiva e ideologica di uno dei simboli più sacri della nazione».
Contro la diversità
L’arte, per definizione, deve suscitare dibattito, talvolta anche attraverso la provocazione. E si può pure essere in disaccordo con i messaggi che intende veicolare (e per questo esiste il dibattito fra correnti artistiche diverse).
La questione in questo caso è però diversa: è il tentativo autoritario di imporre un’arte di Stato, che sia in linea con l’ideologia che la Casa Bianca intende difendere e promuovere. Il personaggio citato prima, l’avvocata Lindsey Halligan, è uno di quelli chiave per questa vicenda, essendo proprio lei la condottiera incaricata di combattere la guerra contro «la cultura woke dello Smithsonian».
L’intento è di epurare dai musei nazionali ogni interpretazione storica ritenuta ideologica o critica verso gli Stati Uniti, in particolare in vista del 250° anniversario dell’Indipendenza che ricorrerà nel 2026.
Da un lato questo sta avvenendo attraverso un controllo sempre più attento ai fondi federali, che in molti casi garantivano la sopravvivenza di alcuni rilevanti istituzioni culturali (l’università di Harvard è solo il caso più macroscopico). Dall’altro lato, attraverso la promozione di visioni unilaterali sull’identità, con una forte connotazione nazionalista.
È difficile dire se tutto questo sia frutto della polarizzazione della società americana che ha avuto come frutto il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, o se al contrario sia il tentativo di imporre una visione unica con scopi propagandistici, costruendo un futuro senza più pretese progressiste e senza ossigeno per gli intellettuali più cosmopoliti. È probabilmente entrambe le cose, con la realtà e la narrazione che si confondono.
Le battaglie ideologiche
In ogni caso, la parte intellettuale più vicina a Trump sta vivendo questa offensiva come un successo. Mike Gonzalez, senior fellow all’Heritage Foundation, un think tank fortemente conservatore, ha celebrato questa politica come un passo importante sulla strada della «riconquista culturale».
In particolare, viene celebrato l’ordine esecutivo di marzo con cui Trump ha incaricato il vicepresidente J.D. Vance – per tramite della già citata Lindsay Halligan – di vigilare sui musei della Smithsonian Institution, per eliminare ogni “indottrinamento ideologico”.
Gonzalez afferma che la seconda amministrazione Trump ha capito l’importanza suprema delle battaglie ideologiche. Come si capisce anche solo ascoltando i discorsi fatti ai comizi del popolo Maga (coloro che credono nel “Make America Great Again”), il tutto si ricollega a un fondamento della propaganda di Trump.
L’idea, ovvero, che esistano Americhe diverse: una autentica e pura, la cui sopravvivenza è in pericolo. E una spuria, fatta di contaminazioni che finirebbero per attentare a quell’anima autentica che ha reso grandi gli Stati Uniti.
La lista di proscrizione
In altre parole, l’attacco allo Smithsonian viene vissuto come una tappa fondamentale di una crociata che sta cercando di mettere fuori gioco i presunti incubatori ideologici della sinistra. L’effetto è quello segnalato da diversi analisti: un altro passo simbolico verso una deriva autoritaria, che garantisca un’unica arte legittima, approvata dal potere.
Da questo contesto deriva ora la lista di esempi che intendono dimostrare la pervasività della “cultura woke” nei musei nazionali. La Casa Bianca ha messo in fila un mosaico di mostre e installazioni accusandole di esaltare identità minoritarie e fluidità di genere, criticare il colonialismo e la schiavitù americana, adottare simboli Lgbtq+ e Black Lives Matter, raccontare la storia dal punto di vista delle comunità oppresse piuttosto che in chiave patriottica.
Qualche esempio? Nel mirino è finito il Museo nazionale di storia e cultura afroamericana, accusato di aver diffuso materiali che definiscono la “cultura dominante bianca” come un sistema che privilegia i bianchi. Arrivando a presentare concetti come la famiglia nucleare o l’etica del lavoro come tratti “bianchi” radicati nel razzismo, sempre secondo la Casa Bianca.
La National Portrait Gallery, invece, è stata criticata per avere ospitato performance e installazioni che affrontano temi come il muro al confine meridionale o l’esclusione storica delle minoranze, nonché per avere dato spazio a opere dedicate all’attraversamento illegale del confine.
All’American History Museum si contesta l’esposizione della bandiera Progress Pride accanto a quella americana, la presenza di mostre sulla storia Lgbtq+. Non mancano riferimenti all’attualità, come un’animazione sulla carriera di Anthony Fauci o un’esposizione che raffigura migranti intenti a guardare i fuochi del 4 luglio attraverso il muro con il Messico.
Il National Museum of the American Latino viene accusato di offrire una narrazione “anti-americana. Per la Casa Bianca, questi casi non sono eccezioni ma prove di un’infiltrazione sistematica di un’ideologia progressista all’interno delle istituzioni culturali nazionali.
Oltre i confini
Più di altre questioni comunque centrali, come la politica economica o le questioni dei diritti civili, la guerra culturale di Trump è diventata il terreno di scontro centrale anche per immaginare il futuro degli Stati Uniti. Da un lato c’è chi è preoccupato per la tenuta della democrazia e dall’altra chi cerca, nella crociata anti woke, di porre delle basi nuove su cui costruire un consenso duraturo (se non una vera svolta autoritaria).
La questione è profondamente americana, ma ha ovviamente conseguenze internazionali. D’altronde non è un mistero che anche a casa nostra, nelle fila dell’attuale governo, ci sia chi applaude a questa crociata, nel tentativo di imporre un nuovo orientamento culturale e una nuova egemonia identitaria.
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