E se a uccidere Simonetta Cesaroni in via Poma fosse stato Marco Bergamo, il mostro di Bolzano? La suggestione arriva dalle ultime pagine del libro di Paolo Cagnan Anatomia di un serial killer, riedizione aggiornata Athesia del suo primo volume, pubblicato nel lontano 1994.

Da allora il giornalista bolzanino, cresciuto all’Alto Adige, ha cambiato più volte città e redazioni: oggi è condirettore dei quattro quotidiani veneti del gruppo Gedi (Padova, Treviso, Venezia e Belluno), che peraltro proprio in questi giorni li sta cedendo a una cordata di imprenditori locali. Ma anche al netto della sorprendente questione romana, di cui si dirà più avanti, rituffarsi nella spirale che travolse Bolzano nel 1992 è un’esperienza che restituisce per intero la vertigine di quella sanguinosa vicenda.

Allora, quando il termine “serial killer” veniva usato sulla stampa solo per storiacce orribili di provenienza statunitense, nel giro di appena sette mesi furono tre le prostitute uccise a Bolzano e dintorni, ognuna con decine di coltellate: il 7 gennaio Renate Rauch, 24 anni, il 21 marzo Renate Troger, 19 anni, infine il 6 agosto Marika Zorzi, vent’anni.

Poco dopo quest’ultimo delitto, all’alba (ed era il giorno del suo ventiseiesimo compleanno), Bergamo venne fermato dalla polizia a bordo della propria auto, da dove spuntarono prove schiaccianti. Due anni dopo la Corte d’assise lo avrebbe condannato all’ergastolo per quei tre delitti e per altri due, avvenuti ancora nel 1985: il primo il 3 gennaio e si trattava di una ragazza vicina di casa di Bergamo, Marcella Casagrande di appena quindici anni.

Poi il 26 giugno Annamaria Cipolletti, baby pensionata quarantunenne (erano tempi in cui poteva accadere) dopo aver insegnato in una scuola media, ma pure dedita alla prostituzione, in un monolocale affittato allo scopo: oggi la si direbbe una escort. In entrambi i casi l’assassino aveva sferrato loro numerose coltellate.

Quest’ultimo delitto Bergamo non lo confessò, come pure quello di Renate Troger. E nel corso dell’inchiesta non si riuscì a stabilire solide affinità né con la morte di un’altra prostituta, Anna Maria Ropele, uccisa pure a coltellate l’8 gennaio 1992 nella sua abitazione di Trento, né con quello di una turista fiorentina, Adele Barsi, aggredita e ferita a morte il 20 luglio 1984 lungo un sentiero nel bosco in val Pusteria, nei pressi di Brunico: delitti rimasti entrambi insoluti.

C’è pure una sesta morte legata alla scia di sangue che quell’introverso saldatore, sessualmente impotente e collezionista di coltelli, aveva lasciato dietro di sé: il suicidio il 16 aprile 1994 del padre Renato, impiccatosi in soffitta a poco più di un mese dalla sentenza, mentre la moglie Maria era a messa.

Un suicidio in cui, oltre alla vergogna, al senso di colpa e forse al rimorso, ebbe senz’altro un peso l’annuncio di una imminente puntata di “Un giorno in pretura” dedicata proprio al serial killer di Bolzano. Il quale è invece morto cinquantunenne il 27 ottobre 2017, per un’infezione polmonare nel carcere di Bollate dove stava scontando l’ergastolo.

Anatomia di un serial killer

Il libro di Cagnan nulla tralascia: le dinamiche delle uccisioni, le indagini lungamente senza sbocchi, la svolta dopo il delitto Zorzi, il profilo psicologico del “mostro”, il suo ambiente familiare. E l’inchiesta, che visse colpi di scena notevoli: ad esempio, il rinvenimento sulla tomba di Renate Rauch di un biglietto scritto a mano in stampatello, che recitava “Mi dispiace ma quello che ho fatto doveva essere fatto e tu lo sapevi. Ciao Renate”. Firmato M.M.

Le perizie calligrafiche attribuirono quella scrittura proprio a Bergamo. Che però imbracciò una sorta di partita a scacchi con l’allora giovane sostituto procuratore Guido Rispoli, appena trentunenne (oggi è procuratore generale a Brescia). L’interrogatorio durante il quale, il 18 agosto 1992, lo inchiodò alle sue responsabilità per il delitto Casagrande, che per sette anni aveva lasciato Bolzano angosciata e senza giustizia, ottenendone la confessione, è degno di una trasposizione cinematografica.

Proprio con Rispoli, in chiusura del libro, Cagnan ripercorre tutti i passaggi dell’inchiesta sul mostro di Bolzano in un’intervista a trent’anni dai fatti. Ed eccezionale è l’apparato documentale: materiale giudiziario relativo a perizie, sopralluoghi sui luoghi dei delitti, appunto interrogatori (dell’assassino, dei suoi genitori, di tanti testimoni), immagini del processo a Bolzano.

Addirittura la riproduzione della lettera che, rispondendogli, Bergamo scrisse al giornalista dal carcere durante il dibattimento: ribadiva di non c’entrare nulla con i delitti Troger e Cipolletti, «commessi da una seconda persona potenzialmente più pericolosa di me», ma come detto la Corte d’assise glieli attribuì, con sentenza poi confermata. Una messe di materiale che trasporta il lettore al centro dell’indagine come raramente un libro riesce a fare: sembra a tratti di trovarsi negli uffici della questura di Bolzano, o al tavolo dello stesso pm Rispoli, con i faldoni spalancati davanti.

Identico approccio, e arriviamo così alla parte del libro destinata a far discutere, utilizza Cagnan per connettere il nome e il profilo di Marco Bergamo al giallo per eccellenza (ormai non più recente) della cronaca italiana: il delitto di via Poma avvenuto a Roma il 7 agosto del 1990, quando la ventenne Simonetta Cesaroni venne uccisa con ventinove colpi, sferrati con un’arma mai ritrovata.

Nessun testimone. E nessun movente, almeno all’apparenza. Non si farà qui il punto di un trentennio abbondante di indagini approdate a nulla, al punto che ora se ne sta occupando addirittura la Commissione parlamentare antimafia. Né ci si dilungherà sui tanti nomi indicati quali possibili assassini: più di trenta gli indagati nel corso degli anni, tre dei quali a lungo al centro delle cronache (il portiere del palazzo Pietro Vanacore, il giovane Federico Valle, il fidanzato della stessa vittima Raniero Busco, quest’ultimo addirittura condannato a 24 anni nel 2011 ma poi assolto in appello con formula piena).

Della povera Simonetta Cesaroni tutti conosciamo la fotografia che la ritrae in spiaggia, in costume e capelli neri al vento. E forse qualcuno ricorderà la cosiddetta “pista del Videotel”. Proprio da qui occorre partire per arrivare a Marco Bergamo. Spiegare oggi le caratteristiche di questa tecnologia oggi archeologica, ma che tanto peso ha avuto nella vicenda investigativa di via Poma, porterebbe via troppo spazio: si rimanda quindi il lettore al libro di Cagnan. Che sulla connessione Marco Bergamo-via Poma parte da una circostanza che ogni giornalista sogna di incrociare.

La pista del Videotel

Nella fattispecie, una donna che ha letto la prima edizione di questo suo libro e che gli si presenta, affermando di avere conosciuto per via telematica entrambi (Simonetta e il serial killer di Bolzano) e che quest’ultimo le avrebbe addirittura confessato il delitto. Con queste parole: «Hai visto? L’ho fatto, l’ho uccisa». Un messaggio giuntole proprio via Videotel. Quella donna nel 1990 aveva 24 anni. E lavorava per una società che, per la Sip, gestiva allora i servizi Videotel.

Il libro contiene un’approfondita intervista in cui lei stessa dettaglia la vicenda: si tratta peraltro di affermazioni già riportate in un suo verbale reso nel 2004 alla procura di Roma, che però non ha ritenuto di valorizzarle. Si chiede Cagnan: possibile che tra il 1985, anno delle uccisioni di Casagrande e Cipolletti, e il 1992 Bergamo sia riuscito a tenere a freno il suo istinto omicida?

Ma questo è il meno: il giornalista elenca infatti notevoli similitudini nella dinamica omicidiaria, rileva l’elemento ricorrente del feticismo (e pure la somiglianza fisica della vittima di via Poma con quelle bolzanine) ma soprattutto insinua un pesante sospetto in relazione a elementi scientifici come nessun altro, cioè il dna ricavato dalle macchie di sangue rilevate sulla porta dell’ufficio in cui la ragazza venne uccisa.

Tanto che il raffronto tra i profili biologico e genetico di Bergamo e le tracce organiche ritrovate in via Poma sta al primo punto di un elenco di auspicabili attività d’indagine (in tutto una decina) che Cagnan ha inviato alla procura di Roma.

L’ipotetico scenario è scritto nero su bianco a pagina 268: «Estate 1990. Simonetta e Marco si conoscono attraverso le chat del Videotel. C’è una chimica. Nasce la voglia di incontrarsi di persona. Lui decide di andare a trovarla a Roma. Si sono sentiti anche al telefono, lei gli ha fornito l’indirizzo: sarà sola in ufficio, quel pomeriggio.

Lui prende prima il treno, poi la metro. Raggiunge via Poma, lei gli apre. È la prima volta che lo vede di persona. Lui, goffo e impacciato, tenta un maldestro approccio sessuale, lei lo respinge – o forse lo deride – e lui la uccide barbaramente. Poi si allontana, verso un treno notturno per tornare a Bolzano. Non è un delitto premeditato, la furia omicida scatta dal rifiuto. Come altre volte».

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