Carla Benedetti ha ragione, rendendo merito a Domani «per aver dato spazio a una questione che si tende a considerare chiusa mentre non lo è affatto». Però bisogna intendersi: quale sarebbe la questione ancora aperta? Se parliamo del significato da attribuire a Petrolio nessun dubbio, trattandosi non di un libro tradizionale bensì di un’opera che lo stesso Pier Paolo Pasolini intendeva presentare «sotto forma di edizione critica di un testo inedito» (il che, paradossalmente, con la sua morte è in effetti avvenuto).

Se Benedetti si riferisce invece al massacro del poeta, un passaggio del suo articolo sembra tradire l’affezione a una tesi conclusiva: «Petrolio non è un’opera incompiuta per la morte (naturale) dell’autore (…). Al suo autore, assassinato mentre vi stava lavorando, fu impedito di portarla a termine». E cioè, sembrerebbe: il movente è proprio Petrolio. Quindi questione chiusa. Forse Benedetti non lo pensa. Molti lettori della “cefiseide” dell’ultimo quindicennio però sì. E quindi qualche punto fermo va messo.

La fascinazione dell’omicidio

I buchi dell’inchiesta sulla morte di Pasolini e le due contraddittorie sentenze che condannarono Giuseppe Pelosi (con l’ipotesi di complici sancita dall’assise ma sbrigativamente esclusa in appello) consentono di immaginare che quella notte le cose siano andate diversamente. Lasciare però intendere che la ragione del delitto sta nella sola volontà di impedire a Pasolini di concludere Petrolio, significa imboccare ancora la strada che porta a Eugenio Cefis, l’allora presidente di Montedison la cui figura Pasolini intendeva porre al centro della propria opera: letteralmente, lo ricorda anche Benedetti, poiché a dividere in due Petrolio dovevano essere tre suoi discorsi pubblici.

Una tesi da anni alimentata da saggi, articoli, interviste, addirittura inchieste giudiziarie: anzi, proprio dal lavoro dell’allora sostituto procuratore di Pavia Vincenzo Calia sulla morte di Enrico Mattei la vulgata ha preso piede. Ma non è una tesi, al massimo un’ipotesi tra mille: tant’è che Calia non solo non indagò Cefis per la morte del presidente dell’Eni (il cui “svelamento” da parte di Pasolini ne avrebbe provocato l’assassinio), ma neppure mai lo convocò come teste. Vuoi mettere però la fascinazione dell’uccisione del poeta perché sul punto di svelare l’indicibile?

I discorsi

L’indicibile: cioè Cefis. E i suoi discorsi. Che in realtà sono quattro. Ma il quarto non lo cita mai nessuno, perché non faceva parte delle carte di lavoro di Pasolini. Dunque per la vulgata non esiste. E per forza, verrebbe da dire, visto che (poi ci arriviamo) con gli altri proprio non quadra. Torniamo quindi ai tre discorsi: quello del 23 febbraio 1972 all’Accademia militare di Modena di cui fu cadetto, quello a un convegno vicentino dell’11 marzo 1973 (però mai pronunciato) e quello al Centro Alti Studi Militari di Roma del 14 giugno 1974, curioso perché quasi ambientalista ante litteram.

Scrive Benedetti che a Pasolini «di quei tre discorsi (…) interessava in modo particolare quello intitolato La mia patria si chiama multinazionale». Ci siamo: ecco la pietra angolare della vulgata. Cefis che a Modena davanti a un consesso di militari propugna la propria fede non nella Repubblica nata dalla Resistenza (di cui fece parte, come comandante militare in Val d’Ossola: i nazifascisti si ritirarono consegnando le armi anche a lui), bensì nel potere superiore di oscure entità sovranazionali votate solo al profitto.

L’erba voglio

Quella pietra angolare è in realtà fragile. Le conferenze culturali di quell’anno accademico a Modena (il 1971-’72) in tutto furono nove: oltre a Cefis vennero ospitati scienziati, filosofi, religiosi, addirittura lo scalatore Cesare Maestri.

Tutti i testi furono regolarmente pubblicati in fascicoli: quindi nessun segreto. E sul frontespizio di quello di Cefis il titolo è, sobriamente, Le imprese multinazionali: prospettive di un’economia senza confini. Quello rilanciato da Benedetti è invece il titolo che gli diede la rivista L’erba voglio di Elvio Fachinelli pubblicandolo pochi mesi dopo (anno II, n. 6, giugno-luglio 1972): un titolo più giornalistico di quello originale, ma soprattutto “militante”. Erano tempi nei quali in politica e nel dibattito pubblico tutto si tagliava con l’accetta. E così di quel discorso di Cefis, che altrimenti non avrebbe lasciato alcuno strascico (come avvenne per gli altri), venne tramandata la lettura che ne diede “L’erba voglio”. Già a partire dal titolo.

L’allarme di Cefis

La pubblicazione aveva altre caratteristiche particolari. Ogni passaggio era infatti chiosato dalla rivista, a firma Giorgio Radice (ma si trattava di Giuseppe Turani): si diceva in sostanza Cefis che “sposava” un futuro modello politico-economico antidemocratico. Ma era un’interpretazione a senso unico.

Tanto che non vi erano commenti a questa sua frase: «Più che mai è importante il senso del dovere (...) che può nascere soltanto in un paese libero, con quella libertà che in Italia è garantita dalla Costituzione repubblicana che voi siete impegnati a difendere». C’era poi un passaggio che da solo smontava la lettura dell’Erba voglio: «Se le forze operanti a livello nazionale non riusciranno a tenere il passo dello sviluppo economico e dei suoi problemi, assisteremo a un progressivo svuotamento del potere politico nazionale». 

Capito? Altro che auspicio, quello di Cefis era un allarme. E infatti aggiungeva: «Io non dico che questa prospettiva di svuotamento degli Stati nazionali e di annullamento di quell’insieme di valori ideologici, storici e tradizionali che essi hanno rappresentato sia la prospettiva migliore e auspicabile. Dico solo che siamo di fronte a una tendenza di fatto della società moderna che potrà essere conciliata con quegli stessi antichi valori soltanto se il potere politico nazionale sarà in grado di rispondere alla sfida dell’economia rinnovando profondamente il proprio ruolo».

La leggenda eversiva

Su come, nonostante questi passaggi, il mantra del carattere eversivo del discorso di Cefis sia giunto fino ai giorni nostri, si potrebbe discutere a lungo. E ci sarebbe da chiedersi quanti hanno davvero letto quel discorso e quanti, invece, hanno seguito semplicemente l’interpretazione di Radice-Turani. Sta di fatto che oggi, un leader dell’allora sinistra extra-parlamentare (di cui la rivista di Fachinelli era parte importante) come Adriano Sofri, sul famigerato discorso di Modena può scrivere parole come queste: «Alla nostra distanza, le previsioni di Cefis erano semplicemente fondate: l’erosione dei poteri degli stati nazionali a vantaggio delle compagnie multinazionali. E l’oratore formulava una previsione, non la auspicava. Nel clima di allora, bombe esplodevano e spade tintinnavano davvero, lo si lesse come una dichiarazione di guerra, la sfida di un internazionalismo proprietario cui rispondere con un riflesso nazionale».

Infine, il quarto discorso. Cefis lo tenne a un raduno di ex partigiani, il 29 settembre 1974 a Ornavasso in Val d’Ossola. Il mensile Historia lo pubblicò nell’aprile del 1975, ma Pasolini evidentemente mai lo lesse. Peccato, perché vi avrebbe trovato sorprendenti assonanze con quanto lui stesso andava elaborando sulla cosiddetta mutazione antropologica degli italiani. Cefis disse ad esempio così: «Una venatura di rinuncia rassegnata sembra contagiare alcuni strati dell’opinione pubblica. Eppure a mio parere il malessere che si avverte è la naturale e logica conseguenza della fase di rapido e diffuso cambiamento che hanno conosciuto i costumi e la vita del nostro popolo».

Poco più di tre mesi dopo, in una celebre intervista a Stampa Sera, Pasolini avrebbe lanciato la sua profezia più angosciante, parlando di una «spoliticizzazione completa dell’Italia» e di una «strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo già tracciata». Mentre Cefis, a Ornavasso, già aveva detto che «stare alla finestra (…) significa oggi assumere una pesante responsabilità: la responsabilità di quel qualunquismo che è il parente più stretto del fascismo». Curioso, no?

L’edizione integrale

Continuare insomma a sostenere, anche solo implicitamente, che la morte di Pasolini si spiega unicamente per via del link Petrolio-Cefis è quanto meno azzardato. E quando afferma che Petrolio si merita una nuova edizione «integrata dei materiali e delle parti mancanti» (in primis ovviamente i discorsi di Cefis), Benedetti dovrebbe riconoscere l’esistenza di un rischio evitabile solo con un imponente apparato di note, che con la letteratura poco avrebbe a che fare: cioè proprio il pericolo di chiudere una questione che chiusa non è affatto, “cristallizzando” con il timbro dell’autorità intellettuale la vulgata su Cefis mandante della morte di Pasolini.

Ipotesi magari azzeccata, chi può dirlo, ma del tutto indimostrabile. E che comunque escluderebbe tutte le altre possibili. Siamo sicuri di voler correre questo rischio?

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