Sono andato alla ricerca della mia America a New York. Ero, e sono ancora, innamorato della città e lì ho trascorso anni meravigliosi. Brooklyn, però, non corrispondeva all’immagine di America che avevo cullato e accarezzato crescendo: quel compendio di sobborghi ordinati, fiumi immensi nei quali pescare, foreste vergini, automobili mastodontiche e fast food sulle strade larghe e affollate che avevo colto, assieme a migliaia di italiani della mia generazione, dalla letteratura, dal cinema e dalla televisione.

Il sogno americano

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Il nostro sogno americano, maturato e raffinato ad arte dai tempi in cui i nostri nonni avevano visto la Sesta Armata risalire il paese per liberarlo dal nazifascismo, era quello al quale ci avevano preparato Strade blu di William Least-Heat Moon, America oggi di Bob Altman, in un meraviglioso adattamento di Raymond Carver, la Trilogia della frontiera di Cormac McCarthy; ma anche l’epoca della grande commedia spensierata: Chevy Chase, Steve Martin, tutte le sticom che hanno contribuito a tratteggiare precisamente la provincia per noi che vivevamo ai confini dell’impero e ad esso aspiravamo.

Quando si dice che «New York non è l’America» si fa forse una semplificazione grossolana, ma con un fondo di verità. Lì, immerso nel famoso caos controllato di idee e ispirazioni, calderone della cultura e dell’arte di tutto il mondo, guazzabuglio di lingue, ideologie e religioni, strampalato inferno di modernità antica, della quieta e pingue americanità quotidiana non c’era traccia. La intravedevo, sbiadita e sfuggente, quando da est mi spostavo a ovest, a Los Angeles. Ma il sud della California è un’altra cartolina sospesa nel tempo, affascinante e sgargiante ma distante dall’anywhere che avevo ben impresso nei miei ricordi artefatti.

Poi, un giorno, ho scoperto il Midwest, i laghi, il Wisconsin.

Storia e tradizione

Chicago mi aveva già dato un assaggio di quell’autenticità che avrei trovato guidando verso nord, ma solo passando qualche tempo a Eau Claire, ospite di Nickolas Butler – che con me ha curato il volume Storie dal Wisconsin, tradotto da Federica Principi e pubblicato da Black Coffee – e della sua famiglia, ho avuto la sensazione di avere finalmente trovato l’America che cercavo.

Non erano i big mall, le strade che si perdono nel verde delle colline, i bisonti o gli autoarticolati, ma – e mi ci sarebbe voluto un po’ di tempo per delineare questo pensiero con esattezza – le persone e la storia che hanno da raccontare e che portano impressa sui volti.

Dicono che il Midwest sia una distesa di sorrisi gentili, e per certi versi è così. Sorrisi gentili e formaggio. Ma il Wisconsin è anche un compendio di tradizione e storia americana, dipinte sulle espressioni dei propri abitanti: trapela dalle bandiere scandinave che spesso si vedono penzolare ai lati della strada nella contea di Chippewa: simbolo della discendenza dai primi coloni europei e garanzia di pesce fritto, bollito o sottaceto; si affaccia sui banchi di verdura dei fieri Hmong nei farmer’s market, che tengono esposte le decorazioni di guerra alle loro spalle mentre scelgono le migliori primizie per i loro clienti affezionati, orgogliosi di aver combattuto per il paese lontano che aveva teso loro la mano; traspare dai cippi dei nativi che per primi hanno condotto i norvegesi tra le foreste dove il Mississippi non è che un fiumiciattolo serpeggiante e che con loro hanno difeso la frontiera a nord.

Il crocevia

Il Wisconsin è il crocevia americano. Il centro esatto dell’americanità che andavo cercando. E lo è perché qui non esiste la pretesa di eccellenza che sembra guidare il destino delle coste – il melting pot newyorchese e il grande sogno californiano uniti dal Destino Manifesto che ha battuto le praterie e che ancora adesso incombe come una minaccia su ogni storia d’America, qualcosa che ricorda da vicino la grandeur di John Ford e i tamburi battenti di John Steinbeck ma che mal si accosta al mito americano degli anni Novanta, quando ormai i furori del passato erano introiettati e si riflettevano pallidi nelle bandiere che sventolavano sui complessi commerciali che producevano commessi geniali a metà tra i clerks di Kevin Smith e Quentin Tarantino che sistema gli scaffali di una videoteca mentre aspetta la sua occasione.

In Wisconsin l’esistenza di una grande nazione si legge spontanea di città in città, di villaggio in villaggio attraverso i racconti dei suoi abitanti, che hanno sempre alle spalle una tradizione che va di pari passo con l’epica del continente, con i suoi trionfi e le sue contraddizioni. Niente è lasciato non detto, niente è esagerato; tutto è come deve essere. Le battaglie vinte sono riportate con lo stesso spirito delle disfatte, i traguardi vengono messi a bilancio con i momenti bui e non c’è nulla che venga lasciato fuori dalla narrazione. L’onestà della gente che abita il Wisconsin sta nel non dimenticare le colpe mentre si contano i meriti.

Qui la storia arriva nuda, diretta, incontrovertibile.

Un continente perduto

Mio figlio è nato nel pieno di una pandemia e fino ad ora (quando scrivo ha tre anni compiuti) non ha ancora potuto viaggiare negli Stati Uniti. Con mia moglie pensiamo spesso a come sarà il suo primo impatto con l’America. Durante il nostro ultimo soggiorno a Eau Claire, con lei incinta, abbiamo visitato alcune case con l’idea di comprarne una e stabilirci lì. Poi il destino ha scelto per noi e ci ha lasciato a domandarci come sarebbe stato. Nostro figlio vedrà un’America diversa dalla nostra: gli arriverà attraverso la nostra consuetudine e per lui, probabilmente, non sarà la grande e affascinante novità che hanno vissuto i suoi genitori.

Inoltre, la sua America avrà già al suo interno tutte le storture che noi abbiamo imparato da adulti. Oltre che la “terra dei liberi” sarà anche un paese brutale, che spesso uccide per strada uomini e donne senza colpa apparente; sarà un posto capace di grandi imprese e di enormi e rovinose disfatte; sarà il continente con la più grande disparità economica irrisolta al mondo, dove il razzismo e il suprematismo hanno trovato terreno fertile e agito indisturbati fino alle soglie degli anni Venti del Duemila; sarà quello che io ho imparato vivendoci: qualcosa di reale, distante dai sogni della mia gioventù e a tratti deludente, come tutto ciò che esiste davvero. E così gli verrà raccontata dalla stessa televisione, dalla stessa letteratura e dallo stesso cinema che hanno esaltato i miei sogni di ragazzi e che oggi hanno intrapreso una strada giustamente critica e cruda per restituire l’America nella sua interezza, per non lasciare, come mi ha sempre dato l’impressione di fare naturalmente lo stato del Wisconsin, niente di non svelato.

Forse non vorrà nemmeno mai andarci, o forse frequenterà l’America da subito con il giusto spirito, alla ricerca di un suo Wisconsin che lo aiuti a rimettere in equilibrio il sogno.

Le voci che io e Nick abbiamo raccolto in Storie dal Wisconsin sono probabilmente un punto di partenza buono come qualunque altro per cominciare a intravedere la realtà schietta nascosta dietro al sogno americano, ma anche per ridare struttura a un ideale che non merita di essere sgretolato completamente e che può indurre nelle nuove generazioni un minimo di tenerezza e nostalgia per un tempo passato, di fronte a quello che è indubbiamente il crollo di un mito. Sono le voci di un continente perduto – per rubare la definizione a Bill Bryson nel suo capolavoro America perduta – che un tempo è stato un grande paese.


Storie dal Wisconsin (Black Coffee 2023, pp. 144, euro 18) è un’antologia curata da Nickolas Butler e Giulio D’Antona

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