A Firenze, nel cuore di un quartiere signorile, c’è una scuola secondaria di primo grado considerata, come si dice oggi, un’eccellenza, dove per chi ha problemi di rendimento o di disciplina la vita è assai difficile. Poco importa che le aule siano colme di un dolore senza voce. Le migliori famiglie cittadine fanno a gara a mandarvi i propri figli.

Eppure quella stessa scuola, voluta da un importante pedagogista come Tristano Codignola in persona quando fu varata la media unica, è stata in passato una vera scuola di quartiere, sui cui banchi sedevano tutti i figli del boom economico, fortunati o meno che fossero. Stare gli uni accanto agli altri non fu solo rose e fiori, ma trasformò la scuola in un laboratorio.

L’esistenza di scuole di serie A e di serie B, legittimata dalla pratica delle valutazioni e delle classifiche, fotografa una tendenza generale ormai in atto da tempo. D’altronde andare a scuola in Italia, sia chiaro, non ha mai significato la stessa cosa per tutti.

Il centralismo ereditato dalla Repubblica si è sempre scontrato con la disomogeneità del territorio, tanto da far spesso ipotizzare forme diverse di decentramento, se pur sotto la stretta tutela dello Stato. Oggi, però, agli squilibri di lungo periodo si aggiungono gli effetti delle trasformazioni che, alla fine degli anni Novanta, hanno siglato la fine del secolo breve della scuola italiana, tracciando una discontinuità rispetto alla tradizione nazionale ereditata dalla Costituzione.

Riforme

Nel decennio di rodaggio della cosiddetta seconda Repubblica, segnato dallo scontro tra berlusconiani e antiberlusconiani, è il ministro dei governi di centrosinistra Luigi Berlinguer a firmare dei provvedimenti la cui organicità appare più evidente oggi di allora. La concezione della scuola di Stato come strumento esclusivo di nazionalizzazione ne risulta di fatto messa in discussione.

Nel 1999 il dpr sull’autonomia determina, nell’ambito della cosiddetta legge Bassanini sulla semplificazione amministrativa, il superamento del centralismo napoleonico, concepito per sistemi scolastici di dimensioni contenute, in nome di «flessibilità» ed «efficienza»; tanto più se si pensa al riconoscimento delle autonomie locali apportato dalla riforma del titolo V della Costituzione nel 2001.

Tuttavia l’ambigua pianta dell’autonomia, che riscuote un certo favore nel mondo della scuola soprattutto a partire dai decreti delegati, mette radici negli anni Ottanta, all’interno di una società sempre più orizzontale, dove si diffondono le opzioni neoliberiste (alle quali si richiama il centrodestra negli anni Novanta).

Nel 2000 è la volta della parità scolastica, che riformula il concetto di ciò che è pubblico, aprendo il sistema nazionale alle scuole degli enti locali e a quelle private, che in Italia sono per lo più cattoliche (non a caso nel 1984 Craxi firma un nuovo Concordato).

Infine, più che la cosiddetta riforma dei cicli, su cui presto si abbatte la scure dei successori di Berlinguer, c’è un altro tassello da non trascurare: nel 1999, in parallelo a quanto avviene negli altri paesi e a livello internazionale, è fondato l’Invalsi, l’istituto nazionale per la valutazione della scuola, che in prospettiva si può dire abbia cominciato a piegare la didattica a una logica nuova.

Disuguaglianze

Qual è a distanza di più di vent’anni il segno impresso da queste riforme? La scuola è senz’altro molto cambiata: posta al crocevia di processi originati e destinati altrove, è del resto costretta a parlare la lingua del mondo. Ma oggi è più evidente anche in cosa consistano l’idea di scuola e la filosofia dell’educazione abbozzate alla fine degli anni Novanta.

La sensazione è che stiano venendo al pettine i nodi posti da un processo di trasformazione che si è mescolato con una tradizione in grado di mettere a punto delle strategie di difesa, rendendo molto vischioso il processo di elaborazione del lutto. A cominciare dall’autonomia scolastica, che in Italia non ha implicato una reale dismissione dello Stato.

Nel momento in cui sembra prefigurarsi un regionalismo asimmetrico più che solidale, agli occhi di molti l’autonomia ha ormai perso il suo potere taumaturgico e ha innescato un processo contraddittorio. La scuola appare sempre meno una anche per quanto riguarda la scuola dell’obbligo, almeno per ciò che concerne la secondaria di primo grado, mentre si è approfondito il fossato tra i licei e gli altri percorsi, per esempio i nuovi professionali in quattro anni invece che cinque.

O meglio la scuola è una, nessuna, centomila, ben al di là delle due velocità del paese, il nord e il sud, che i dati Invalsi e Ocse confermano di anno in anno. La verità, ben più amara, è che alle scuole prestigiose dei quartieri-bene si contrappongono le scuole di frontiera dei quartieri problematici, a Milano come a Bari, a Torino come a Napoli, nelle piccole come nelle grandi città. Anche in tema di reclutamento, per il vantaggio che le sedi prestigiose hanno nella carriera degli insegnanti.

L’impressione è che le gerarchie si stiano ridefinendo in base alle logiche in continua evoluzione delle società liquide, dove si intrecciano dimensioni nazionali e locali, europee e globali. Se l’orizzontalità scolorisce i confini fisici e mentali, mettendo in discussione il rapporto tra centro e periferia, la scuola dell’ultimo ventennio è cambiata rispondendo alle sollecitazioni del territorio inteso in una accezione sempre più ristretta. La vita didattica e il clima dei singoli istituti è fatto sempre di più da quello che preme ai loro cancelli.

L’ansia valutativa

Allo stesso tempo l’autonomia, invece di promuoverla, ha inibito la libertà d’insegnamento, favorendo di contro la conformazione al modello culturale, didattico e comportamentale che è indirettamente suggerito dai sistemi di valutazione. I risultati che via via vi ottengono le scuole italiane sono denunciati dai media con toni allarmati ma raramente suscitano riflessioni in grado di mettere in evidenza il gioco di specchi che lega le valutazioni di sistema e quelle degli studenti.

È difatti innegabile che da un po’ di tempo insegnare significhi soprattutto valutare, e sulla base di criteri anch’essi “oggettivi”, volti a premiare la performance e a offrire una istantanea di quanto è invece per sua stessa natura in movimento. Mi riferisco in particolare alla prassi delle griglie di valutazione, invalsa senza che sia sancita da nessuna legge, forse per mettersi al riparo da eventuali critiche.

Di fatto l’attività didattica è percorsa da una costante ansia valutativa, che ultimamente va peraltro sollevando perplessità da più parti. È una pressione che cresce tanto più alta è la posizione occupata dai singoli istituti nella scala dell’eccellenza, in uno strano connubio di rigore d’altri tempi e i nuovi criteri algoritmici, che pure sono funzionali a un nozionismo ben lontano dalla tradizione nazionale. È qui che la scuola, stretta tra la nostalgia di un modello ormai inapplicabile e un futuro opaco, appare più in pericolo.

La valutazione e la verifica degli apprendimenti sono però una grande nube tossica, non foss’altro perché riflettono un’idea di istruzione imperniata sulla concorrenza e sulla competizione, che rende vani (e francamente ridicoli o meglio ipocriti) tutti gli appelli all’affettività e alla solidarietà, fatti propri non solo dal ministero ma da gran parte il mondo della scuola anche in occasione di fatti di cronaca recenti. Senza oltretutto prendere atto che nella complessità del mondo attuale, dove la frattura generazionale si approfondisce di anno in anno, la scuola non ha più il monopolio della formazione.

La scuola dell’autonomia

Il discorso pubblico sulla scuola, con i suoi insistiti allarmi sullo scadimento del livello delle conoscenze, ci fa credere che l’alternativa sia tra una scuola seria e una che di fatto lo è sempre meno. Ma la scelta corre lungo altri percorsi, perché il problema non è quanto si studia ma come si studia.

La scuola dell’autonomia, pur niente affatto univoca, rischia nel complesso di trasformarsi in una sorta di istituzione totale che smista sulla base di saperi e comportamenti preconfezionati, pronti a essere spesi nel mondo del lavoro o nei canali di accesso al mondo del lavoro.

La scuola non sembra voler educare al ragionamento critico e alla libertà di pensiero – un abisso che dà la vertigine e dal quale i giovani sono tenuti preventivamente alla larga, quel tanto che basta perché ne intravedano lo spettacolo ed evitino, non sia mai, di caderci dentro. Eppure il processo di apprendimento e di formazione, così come quello di crescita e la vita stessa, è un viaggio dove non conta solo la meta, ma anche il punto di partenza e il viaggiare stesso.

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