«Siamo donne senza voce. Siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo. Siamo mennonite senza una patria. Non abbiamo niente a cui tornare, a Molotschna perfino le bestie sono più tutelate di noi. Tutto quello che abbiamo sono i nostri sogni – per forza che siamo sognatrici».

È un passaggio di Donne che parlano (Women Talking in originale), romanzo di Miriam Toews tradotto e pubblicato in Italia da Marcos y Marcos nel 2018.

Parto, per vocazione alla disobbedienza (anche a me stessa), dal film scritto e diretto da una donna, Sarah Polley, inserito dall’Academy nella rosa degli aspiranti all’Oscar 2023 per il miglior film e la migliore sceneggiatura non originale.

Non avrà la statuetta best picture, lo dico subito, ma la sua presenza nelle cinquine significa molto. Miriam Toews ha raccontato a più riprese nei suoi romanzi l’integralismo patriarcale della sua comunità mennonita canadese di nascita, Steinbach in Manitoba.

L’integralismo femminista del film di Sarah Polley è necessariamente simmetrico. Women Talking, servito non casualmente da un cast di alto lignaggio che comprende Rooney Mara, Frances McDormand, Claire Foy e Jesse Buckley, è un horror teatrale dell’autocoscienza che copre uno spazio di 48 ore.

Quante ne occorrono a un manipolo di donne di varie età asserragliate in un fienile per deliberare una ribellione che è un exodus epico. È il consuntivo di una storia decennale di stupri subiti e rimossi dalla comunità religiosa: zii, fratelli, vicini, parenti le hanno sistematicamente narcotizzate con lo spray per le mucche, violentate e ingravidate.

Colpa dei fantasmi, ufficialmente, o di Satana. Ma un colpevole è stato sorpreso, e ha parlato. I responsabili sono in galera, ma tutti i maschi della comunità si sono tassati per la cauzione. Presto usciranno, torneranno a casa.

E per decidere del proprio destino queste donne condannate alla servitù e all’analfabetismo hanno una manciata di ore. 

È un’astrazione temporale arcaica e oltretutto seppiata (alla maniera del Racconto dell’ancella di Margaret Atwood) ma l’altoparlante dei censimento che attraversa gli sterminati campi coltivati a mais ci informa che siamo nel 2010.

Diventa il pretesto per esplorare problemi universali: subalternità, ghettizzazione, violenze domestiche, oppressione con l’alibi della fede. Non sanno scrivere, le donne della comunità, ma con l’aiuto del maestro di scuola August Epp (Ben Whishaw), vittima di esclusione pregressa per via della madre ribelle, dovranno scegliere tra le due opzioni votate alla pari : restare e combattere oppure andarsene, scappare altrove, lontano dagli uomini, con i loro bambini. Women Talking esce in sala da noi con Eagle Pictures (non casualmente) per l’8 marzo.

Poche donne

Questa edizione degli Oscar difetta di donne registe e l’inclusione emblematica di Sarah Polley sembra un tributo ai tempi e al politically correct. È un proclama di diritti sacrosanti, ma l’emozione, se arriva, arriva in finale, quando parte la carovana delle sfruttate a caccia di un sogno di uguaglianza e di libertà lontano dai loro uomini.

Parlando di Oscar, è francamente difficile leggere in chiave femminista Tàr di Todd Field: la luminosa carriera di direttrice d’orchestra di Cate Blanchett è certamente ostacolata dal sesso ma molto di più dalle accuse di molestie sessuali: è la patente Lgbt che l’Academy si è garantita.

La storia femminile che ha più chance quest’anno riguarda una bambina di nove anni, la Càit di The Quiet Girl , opera di un regista maschio irlandese di eccezionale sensibilità, Colm Bairèad.

È in lizza come miglior film internazionale, da noi è uscito il 16 febbraio ed è ugualmente di ispirazione letteraria. Il racconto di origine è Foster di Claire Keegan, ed è, rigorosamente in lingua gaelica, una storia di emancipazione dall’oppressione familiare, fatta di piccoli gesti, di affetti silenziosi e di quotidianità rurali salvifiche nell’esilio dei parenti a cui è stata affidata di una bambina (Catherine Clinch, straordinaria) che bullismo scolastico e esclusione domestica hanno praticamente ridotto all’autismo.

Vero è che ci sono due femmine, Michelle Yeoh e la rinata (e alla sua prima nomination per l’Academy) Jamie Lee Curtis, al centro del titolo che detiene il record annuale di candidature, Everything Everywhere All at Once dei fratelli Daniels, all’anagrafe Daniel Kwan e Daniel Scheinert.

Undici nomination però non fanno primavera, come le rondini: il multiverso di arti marziali che fa gridare al miracolo a un pezzo iperselezionato di pubblico e di critica risulta, in 140 minuti, ripetitivo e sfibrante.

Il boom dello streaming è invece storicamente e stilisticamente coinciso con l’escalation di un movimento reale e arrembante, con la rivendicazione di una nuova figura di donna, forte, tosta, più ganza dei maschi, anticonformista e ribelle. Sono nuovi stereotipi, per carità, niente di più. L’algoritmo fiuta il vento e si adegua.

La serialità popolare di casa nostra, riservata agli anziani di prima serata, partorisce uno tsunami di superpoliziotte femmine buone per tutti gli itinerari regionali.

È bene saperlo: i tour turistici italiani tra le location pugliesi, napoletane e via sfruttando su piccolo schermo furoreggiano come quelli di Albuquerque, New Mexico, per Breaking bad.

Scomuniche

Su La Legge di Lidia Poet sono piombate scomuniche a non finire. Offende i valdesi perché non rispetta l’integrità del personaggio reale. Irrita le femministe per via dell’incipit della serie, puro sesso a vista con femmina al comando.

Non è ben chiaro: se la donna oggetto è sbagliata, e su questo concordiamo tutti, è sbagliata anche la donna soggetto, quella che il piacere lo prende? Siamo proprio incontentabili?

Tecnicamente, non è la prima avvocata d’Italia: prima di lei risulta che Giustina Rocca da Trani, nella seconda metà del ‘400, avrebbe esercitato la professione al punto di ispirare a Shakespeare la Porzia del Mercante di Venezia.

Va tutto bene, è tutto giusto. Non salto sul carro del vincitore, non mi interessa il successo immediato né la classifica commerciale di Netflix.

Parlo da spettatore ordinario: la serie prodotta da Matteo Rovere con Groenlandia (e da lui diretta nei primi due episodi) funziona e non è banalmente nazionalpopolare, non è del tipo che oltre la muraglia delle Alpi è, come spesso accade, inguardabile e inesportabile.

Non è un biopic: è un prodotto di puro entertainment che sfrutta una storia vera di battaglia femminile. C’è poco da scandalizzarsi per i tradimenti. 

Da noi le serie in costume sono, a memoria, variamente sfigate: qui la Torino umbertina funziona, come funzionano gli ammiccamenti all’attualità, l’oppio come equivalente delle canne di oggi, gli anarchici involontariamente profetici dei casi di malcarcere di questi giorni.

Funziona magneticamente Matilda De Angelis, che è straordinariamente seducente, coi suoi insetti-gioiello, e non scordiamoci che è un’icona promossa e importata dagli  Usa.

Funzionano gli ottimi comprimari, come accadeva solo con le indagini di Montalbano. La Lidia Poet di Netflix dice "cazzo”, e chiaramente la cosa appartiene all’impossibile.

Le situazioni sono copiate da altri prodotti (The Alienist, per dirne uno) le musiche pop sono quasi una neo-convenzione, le lavandaie sembrano uscite dalle vetrine d’alta moda e i pasti dei degenti manicomiali sono a dir poco ottimisti.

Ma stiamo sempre parlando di un prodotto industriale, in un paese che esporta prosecco in lattina. La saggezza di Woody Allen fa sempre testo: basta che funzioni.

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