Finalmente mi sono vaccinato. In quanto docente incluso nelle liste stilate dall’università, ho raggiunto la struttura allestita davanti alla stazione Termini di Roma. L'organizzazione è risultata impeccabile, con un personale preparato e gentile, attese minime, file ben distribuite, locali ampi e igienizzati: non sarebbe potuta andare meglio. Dobbiamo essere fieri di quanto siamo riusciti a ottenere. Cosa non da poco, visto che vaccinati sono ormai circa quattro milioni di cittadini.

Sulla via del ritorno, mi è venuta in mente una vecchia avventura di oltre vent’anni fa. Mentre insegnavo in un'aula con una settantina di studenti, mi capitò di alludere alla cicatrice circolare che campeggia tuttora sulla mia spalla sinistra (forse parlavo di storia della medicina). Simile al rosone mistico di una cattedrale, quell’impronta fu il risultato di un vaccino che condivisi con la mia generazione come un autentico rito di passaggio. Ebbene, strano a dirsi, la mia confessione risultò inaudita per tanti studenti passati indenni attraverso le più varie modificazioni corporee: tatuaggi di ogni collocazione, colore e dimensione, orecchini molteplici, piercing situati ovunque, e magari branding, una lavorazione della pelle, tra marchiatura a fuoco  e scarificazione, simile a quella praticata da alcune tribù africane o amerindie.

Vedevo sguardi attoniti, in cerca di un chiarimento. Quel mio stemma carnale, proprio non lo capivano. Loro, i trapunti, i dipinti, i decorati! «Ma noi i vaccini li abbiamo fatti per via orale, non lo sa?» Non lo sapevo. In effetti, i ragazzi che frequentavano l’università negli anni Novanta, ignoravano completamente la puntura, o l’incisione, che quelli della classe 1957, e di tutte le annate precedenti, avevano subito durante le scuole elementari o medie.

L’intruso

Questo pensavo, avviandomi a casa. Subito dopo, però, ho avuto un sussulto, mentre nel mio cervello irrompeva violento il titolo di un saggio di Jean-Luc Nancy: L’intruso. Infatti, mi domandavo, che cosa avevo fatto, se non lasciarmi iniettare qualcosa di estraneo, di estraneo e pericoloso, ossia il nemico che andava falciando vittime nel mondo fino a toccare i 2,5 milioni di morti?

Non sono certo un no-vax, come si è visto, eppure questa volta l’incontro con l’Altro, ovvero con la Malattia, col Male in persona, mi ha fatto impressione. Poliomielite, vaiolo e così via sono ovviamente morbi non meno gravi, ma il loro vaccino, durante la mia giovinezza, rientrava nella routine. E poi quelle patologie erano già state debellate, per così dire, pensionate. Qui no. Qui si è trattato di siringarsi un predone in piena attività, inoculandosi il virus che continua a spadroneggiare nell’intero pianeta. Perciò sono andato a rileggere Nancy...

Nel 1990 il filosofo francese ha subìto un trapianto di cuore, e poco dopo è stato colpito da un tumore dovuto probabilmente alle medicine anti-rigetto. Dunque, ha spiegato Andrea Cortellessa, in questa vicenda medica la presenza dell’intruso è triplice: organo estraneo prelevato da un altro corpo e inserito nel proprio; farmaco che, secondo l’ambivalenza dell’etimo, cura e al contempo avvelena; intruso che altera la vita delle cellule. Solo nove anni dopo l’operazione, Nancy compone un saggio che intitola L’intruso (tradotto da Valeria Piazza nel 2000 per Cronopio). Lo fa su invito della rivista Dédale per un numero intitolato La venuta dello straniero. Questo per dire che, anche se il testo non tocca mai esplicitamente temi politici, la politica resta vicina al pensiero dell’autore, insieme al concetto di estraneità.

Torniamo ora al vaccino di noi italiani. Rispetto all’immagine del trapianto-tumore in Nancy, si impone innanzitutto una distinzione. All’inizio del libro, infatti, leggiamo: «L’intruso si introduce a forza, con la sorpresa o con l’astuzia, in ogni caso senza permesso e senza essere stato invitato». Cortellessa commenta il passo sottolineando un’altra ambivalenza etimologica, relativa questa volta al termine “ospite”: «L’hospes [amico, straniero] coesiste con l’hostis [nemico], e l’ospite, figura ancipite attiva-passiva, porta in sé raccolto, altresì, colui che è ostile, dialettico, in frizione con l’altro».

Fuori dal loop

Ma vengo alla mia vicenda vaccinale. Inutile specificare che l’Astrazeneca, a differenza di quanto accaduto a Nancy, non si è introdotto nel mio organismo a forza, con la sorpresa o l’astuzia. Al contrario, io l’ho cercato avidamente, e l’ho invitato con gioia, chiedendogli di accomodarsi a casa mia proprio come si fa con un personaggio famoso, ammirato. Un po’ me ne vergogno, e mi sento come chi, per cenare con un vip, non esiti a pagare cifre esose, anche se, per fortuna, lo abbiamo avuto gratis. Perché lo ammetto, io avrei tranquillamente pagato, e neanche poco, pur di venire fuori da questo… come chiamarlo, delirio, incubo, assillo?

Sarà perché in casa, fermo, mi congelo, ma a me è venuta in mente l’immagine di una glaciazione. Mi rendo conto, però, che è del tutto sbagliata, visto che il nostro pianeta si sta sciogliendo, si surriscalda e anzi va definito “infiammato”, in quanto a sua volta ridotto come un malato grave per via dei danni che tutti conosciamo (allevamenti intensivi, deforestazioni, spillover) e che purtroppo sono alla fonte stessa del Covid. Dovendo allora scegliere un’altra definizione, forse, alla fine opterei per loop. La parola mi piace, perché evoca un bel film paradigmatico della situazione attuale.

Ne ha già parlato Melania Mazzucco, ma voglio ripeterlo: le nostre vite sembrano imitare quel Giorno della marmotta (Groundhog Day) che dà il titolo a una pellicola del 1993. In essa, l’eroe, Bill Murray, si vede prigioniero di un’atroce forma di “eterno ritorno”, costretto a replicare la stessa giornata all’infinito. Così succede a noi in questo estenuante loop, che in inglese significa “cappio”, e indica oggetti e strutture formati da linee chiuse o anelli. Se dico questo, è perché, oltre che salvifico, l’Astrazeneca mi sembra appunto un vaccino anti-loop, una sostanza magica, meglio, il principe azzurro che inietta sì il nemico, ma per cacciarlo via e rompere l’incantesimo della ripetizione.

Il principio dei simili

E qui devo omaggiare mamma mia, una pediatra omeopatica con cui litigai ferocemente, convertendomi all’allopatia per rinnegare la medicina di casa. Lo confesso, sto facendo un mea culpa familiare. Mi spiego. Dopo la fine della guerra, mia madre abbracciò questa strana disciplina, eterodossa, eretica, assai illustre, visto che rappresenta uno dei più fortunati prodotti della scienza romantica. Fondata da Samuel Hahnemann (1755-1843), rilanciata in Italia dal suo erede Antonio Negro (1908-2010), l’omeopatia segue il “principio dei simili”, ossia una terapia controintuitiva in base a cui le malattie si guariscono, invece che con i loro opposti (vedi gli antidoti), con i loro simili: “Similia similibus curenter”.

Sia chiaro, procedimenti del genere appartengono alla storia della medicina, e, con Ippocrate, precedono Hahnemann di due millenni. Ma me piace immaginare che, nell’Ottocento, sia stata l’omeopatia a rilanciare un procedimento di così difficile comprensione, suggerendo a Pasteur l’idea di vaccino. Difatti, cosa c’è di più controintuitivo? Io mi sono iniettato quel medesimo virus che per un anno, con tanta attenzione, ho cercato di evitare! Mesi e mesi a schivare il pericolo, e poi metterselo in corpo, aprirgli casa! Ho fatto bene, certo, però è piuttosto strano sapere che sta adesso qui, dentro me.

Ricorderò senz’altro questa giornata, in attesa delle seconde dosi, l’anelato richiamo che sembra scarseggiare. A tale proposito, si impone un’avvertenza. Vorrei cioè concludere la mia rievocazione, invitando all’ascolto di un video appena uscito e assai istruttivo in merito alla questione dei vaccini Covid-19. Sono quattro minuti in cui la parlamentare europea Manon Aubry accusa l'Unione europea di sudditanza nei confronti di Big Pharma. Sono rimasto colpito, devo ammetterlo. Da vaccinato, ora, posso dirlo: chapeau!

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