Valeria Parrella, scrittrice e drammaturga due volte finalista al premio Strega, è tornata alla forma narrativa del suo esordio – Mosca più balena, Minimum Fax 2003 – il racconto. Con Piccoli miracoli e altri tradimenti – Feltrinelli, 2024 – è tornata ad affacciarsi dalla propria finestra per raccontare il pezzo di strada che le sue personagge percorrono lì sotto – osservandole, silenziosa e attenta, mentre da lì passano, continuando nel loro tragitto. Ché in fondo uno scrittore altro non è che uno spettatore molto coscienzioso.

Parrella, come sta?
Bene.

Non mi risponde mai nessuno così.
Da un punto di vista personale sto bene. Se riesco a scontornarmi dai problemi del nostro tempo, penso di esser nel posto in cui volevo stare a cinquant’anni.

Piccoli miracoli e altri tradimenti: il tradimento è un miracolo?
I miracoli sono gioie che compaiono all’improvviso. È il divino che c’è in noi che si manifesta, una deviazione dal percorso stabilito: camminando in strada vediamo sbocciare un fiore, e allora magari ci fermiamo ad ammirarlo un po’, però poi dobbiamo riprendere la nostra strada. In questo senso, i miracoli sono tradimenti: indugiando a guardare il nostro fiore, per un attimo abbandoniamo la strada tracciata - da noi stessi, dal marito, dal figlio, dal lavoro, dalla società in sé. Procediamo per tragitti segnati finché non sboccia il miracolo.

Tradire è un bene, quindi?
E però per lei o è bianco o nero! Il tradimento è un Giano bifronte. Da un lato crea una frattura, dall’altro ci può dare un grande senso di libertà.

Tradire è tornare a esser fedeli a noi stessi?
Una signora fiorentina diceva che chi sta bene non trasmuta, e se a trasmutare è chi sta male vuol dire che a tradire è chi soffre, allora sì: può essere pure un ritorno a noi stessi.

Nei suoi racconti?
È l’ultima capriola che puoi fare per cercare di venire fuori dall’angolo.

A proposito: è tornata al racconto.
Che rilassatezza. Sono così felice.

Sì?
Che, non mi vede felice?

La vedo molto felice, certo.
Ecco sì, a me scrivere racconti fa stare proprio bene. Il nostro Paese è molto strano: veniamo dal racconto - lo cunto de li cunti, no? - ma c’è questa diffusa idea che sia un’opera minore, e non lo capisco. Francesco Piccolo recensendo la raccolta su Repubblica ha scritto che il mio non è un libro ambizioso. Come se l’ambizione fosse scrivere un libro di cinquecento pagine.

I racconti la fanno sentire libera.
Sì, esatto. Ho esordito vent’anni fa giusto con una raccolta, Mosca più balena. Lì c’era Dritto dritto negli occhi, racconto in cui Guappetella, la protagonista, faceva una specie di arrampicata sociale alla Bel Ami. In quel periodo, vivevo in un monolocale, faticavo a pagare l’affitto, lavoravo tanto; non sapevo sarei diventata una scrittrice, lo speravo ma mica lo sapevo. Ricordo di esser andata in bagno e poi, dal niente, di esserne uscita con l’idea giusta per concludere il racconto: sensazione incredibile, una gioia immensa! Passati vent’anni, la mia vita è totalmente cambiata, ma scrivendo un racconto provo la stessa felicità.

Le è successo, con questa raccolta?
Scrivendo Passare, a un certo punto - ero in cucina tra forno e finestra, la luce da destra - ho capito quale fosse il modo migliore per sbloccare la situazione. E che gioia!

Parliamo di Mamma – il primo racconto. Antonella, sua protagonista, da ragazza non scendeva a compromessi, però da donna, da adulta, racconta di averlo fatto spesso, negli anni. È cresciuta e basta o la vita l’ha piegata?
E mi scusi, non è la stessa cosa?

Spero di no.
E invece sì. Si cresce, e si capisce che i compromessi sono necessari. E intanto ci saltano addosso i dolori, e veniamo piegati. In Caffè Margherita, la bambina protagonista, ha un muro di fronte alla finestra di casa che non le permette di scorgere quel che c’è aldilà, nel mondo. Per lei, però, quel che non può vedere è una promessa, a dodici anni tutto è una promessa, mentre per un adulto quel muro è solo opprimente: guardi fuori, lo vedi, pensi: mannaggia a me che non guadagno abbastanza da pagare l’affitto per un posto senza muri alla finestra. Ecco, in questo senso la vita ci piega.

Rimanendo su Caffè: le stimmate sulla porta?
Volevo prendere in giro Padre Pio, che non mi sta simpatico.

Perché?
Mi ha sempre dato un senso di sporco. Rispetto chi lo prega, per carità, e però sono atea, e così è. Mi piaceva l’idea di sfotterlo un poco.

Quand’è diventata tanto libera di dire ciò che vuole?
Lo sono sempre stata. Pure mia sorella è una donna libera, credo ce l’abbiano insegnato i genitori. Non mi imbarazzo quasi mai, cerco sempre di dire quello che ho in testa - senza ferire gli altri, eh. Mio marito dice che sono risponnera.

Torniamo ad Antonella - Mamma: decide di non far più la tinta ai capelli.
Come me.

Come lei.
Mi ero rotta il cazzo di tingerli.

Si sente meglio?
Sì. Ritorniamo a Leopardi: la morte e la moda sono sorelle. All’epoca c’erano i corpetti che soffocavano, oggi i tacchi che ti fanno il culo strepitoso ma pure un male cane.

I tacchi li mette ancora?
Per carità! Mi ero rotta il cazzo anche di quelli. Ci ho pensato parecchio, alla faccenda della tinta, e secondo me ha a che fare con l’idea che una sia ancora nell’età fertile. Oggi c’è il mito della giovinezza ma io proprio non capisco: i greci andavano dagli anziani per chiedere consiglio, erano i saggi, oggi è tutto sessualizzato. Ma senta, io la scorsa estate in spiaggia mi godevo il sole, bella serena, mentre le altre si affaccendavano a trovare un parrucchiere per la tinta: vuole mettere?

In Passare lei scrive che “le cose di cui non si parla scompaiono”. È così?
No, per me scompaiono solo le cose che non posso vedere. Da piccola quando avevo la febbre e stavo in stanza e mia madre usciva, pensavo: chi mi assicura che la realtà continui, fuori da quella porta?

Mettere qualcosa a parole non lo afferma nella realtà?
Scusi, ma allora l’esercizio retorico sarebbe impossibile, no?

Teniamo delle cose per noi per avere il nostro mondo incontaminato?
Certo: coltiviamo noi stessi.

Lei cosa coltiva per sé stessa?
Mi piace andare in piscina, al cineforum, girare per il quartiere e mettermi in ascolto, mi piace fare festa, il mio epitaffio vorrei fosse: sapeva fare festa, mi piace vedere mio figlio crescere.

Scrive “L'amore non è che farsi cinquecento chilometri per una scopata”. È tutto qui?
Lo dice Fiumani, dei Diaframma – non ricordo dove. Lui dice settecento, e io cinquecento. E mica è poco farsi tutta questa strada per una scopata, no?

Com’è cambiato il sesso nella sua vita?
Non è cambiato tanto. Chiaro, a vent’anni sei più vorace, ma solo perché devi ancora capire cosa ti piace, fatto quello rimane un bel gioco.

“I re restano bambini” dice Didone nella raccolta. Il potere è infantile?
Sì, lo stiamo vedendo in maniera tragica. I due burattinai contemporanei sono Netanyahu e Putin, accomunati dal desiderio di tenere il potere, massacrando un’altra popolazione, la cosa che Arendt metteva all’origine del totalitarismo: indicami un nemico, distruggilo e avrai il popolo con te. Ed ecco, i tirannicidi servivano a questo: quando il tiranno stava per fare una cosa più grande della conservazione stessa dell’essere umano, arrivava Bruto e qualcosa si salvava.

Manca l’umanità.
Dio buono, ma come si fa a giocare così con la vita degli altri? Qual è in fondo la responsabilità di un sovrano? Stiamo parlando del Faust di Goethe, adesso: Vivere su libero suolo, con un popolo libero. A quell’attimo potrei allora dire: “Fermati dunque tu sei così bello! La traccia dei miei giorni terreni non potrà svanire in eterno”. Il problema del re è lasciare una traccia di sé, ma così quei due lasciano solo una scia di sangue.

Parrella, questa domanda la faccio a tutti: immagini di avere ottant'anni, e che sia una domenica mattina: dov’è, con chi, che fa?
Sono in un’urna cineraria poggiata su un mobile assolato, circondata di piante e a casa di mio figlio. Sopra l’urna c’è scritto sapeva fare festa.

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