Paolo ha otto anni, ed è un bambino come tanti, vive tra i Pokémon e il calcio. Ne ha dodici, è un adolescente come tanti: le feste, gli amici, la scoperta del proprio corpo. Cresce, diventa un giovane uomo, e fa le esperienze di tutti, ha una famiglia amorevole e, a modo suo, unita, ha il suo gruppetto, ha i suoi libri. Paolo è il ragazzo della porta accanto, dolce con tutti, curioso del mondo.

Dentro, però, è abitato da un dissidio: il padre è testimone di Geova e la madre no; la sua religione sono gli affetti, i libri. Paolo chi deve assecondare: il padre che lo porta alle adunanze o la madre che lo vorrebbe per sé?

Valoppi, nel libro il senso di colpa che il Paolo suo protagonista prova nei confronti dei genitori è forte.

È stato uno dei motori di questo romanzo.

È andato alla ricerca della sua origine?

In un certo senso, sì.

Cos’ha trovato?

Chi ho trovato. Il bimbo che, zitto e buono, usciva dalla propria cameretta per andar in soggiorno e lanciare occhiate timide al padre, per cercar di capire se ce l’avesse con lui.

In che rapporti è con quel bimbo?

Buoni.

Con il senso di colpa?

Altrettanto buoni. C’è ancora, ma in misura minore. Spesso, da adulto, mi sono trovato ad avvertirlo a ogni dispiacere provato dalle persone accanto a me, ma so gestirlo.

Torniamo a quel bimbo.

Sentivo l’esigenza di compiacere i miei genitori, ecco tutto. Ma i loro desideri avevano spinte che confliggevano: accontentarne uno, dar un dolore all’altro. Lì scattava il senso di colpa.

E la vergogna.

Senso di colpa e vergogna dapprima si sono fusi, poi la vergogna ha preso un posto centrale.

Quand’è successo?

Al liceo.

Periodo difficile?

Non lo è per tutti?

Lei, però, si vergognava di suo padre, testimone di Geova.

Quando i miei amici venivano a casa mia nascondevo tutto quello che potesse ricondurre a Geova: opuscoli, libri, bibbie, tutto; quando guidavo la macchina di famiglia li buttavo, quegli opuscoli e libri, sempre sparpagliati sui sedili di dietro, nel portabagagli.

Ci ha scritto un romanzo, però: vergogna superata.

Infatti.

Scrivendo si è mai chiesto se stesse operando un tradimento nei confronti di suo padre?

Continuamente. Questo romanzo è una lettera al padre, per citare Kafka. Non gli avevo mai detto, prima, come avessi vissuto gli anni dell’infanzia, per cui la paura di tradirlo non nasceva tanto dall’idea di esporre la sua vita ai lettori, quanto, in qualche modo, di corrompere la percezione che lui ha sempre avuto dell’infanzia del figlio.

Come hanno reagito al libro?

Mio padre, da buon testimone di Geova, si è dispiaciuto di non essere riuscito a portarmi dalla sua. Per anni dev’esser stato convinto di esserci andato molto vicino, ma con questo romanzo ha capito che ormai non ci sono possibilità che succeda. Mia madre si è rammaricata perché convinta che in quegli anni abbia sofferto, e che non sia stata capace di vedere il mio dolore e proteggermi.

Si sono riconosciuti nei personaggi?

Mio padre mi ha detto di no, di vederci mio nonno, suo padre.

Restando su di loro: l’impressione non è che Paolo avesse dei genitori, ma un padre e una madre, due entità distinte. C’era dell’amore?

Ce n’era, ce n’è tantissimo. Il mio romanzo si concentra su ciò che li divideva, appunto: Geova, ma erano e sono legati.

Cosa crede li unisse?

Cercavano entrambi la libertà, un senso più alto del vivere. Di nuovo: il libro si focalizza molto su Geova e sulla sua presenza nella nostra vita, però, al di là di questo, avevano una bella vita di coppia. Gite fuori porta, fine settimana in vacanza, amici.

Cosa li separava?

Gliel’ho già detto.

In una delle prime scene, sua madre dice al marito che deve scegliere: lei o Geova.

Mio padre le risponde che non può chiederle una cosa del genere, e quello per lei è uno strappo, mia madre si sente tradita. Ma il suo amore per lui è talmente forte da convincerla a restare.

Me lo racconta un momento di tenerezza tra loro?

Avevamo una casa a Gallipoli. Ogni anno io e mia madre ci andavamo a inizio estate, ché lei era un’insegnante e già da giugno era libera, mentre mio padre, poi, ci raggiungeva ad agosto. Veniva in auto, ci chiamava quando partiva, da Roma, e spuntava nel tardo pomeriggio con un mucchio di regali tra le braccia: mini televisori, stereo e cassette. Io e mia madre gli andavamo incontro sul vialetto di casa e ricordo, ancora oggi nitidamente, i suoi occhi che d’un tratto si riempivano d’amore nel rivedere il marito dopo quelle settimane a distanza.

Perché i regali?

Essendo un testimone di Geova, mio padre non festeggiava il Natale, e credo che quello fosse il suo modo di recuperare.

Insomma, avevano un loro equilibrio.

Direi di sì.

Lei che ruolo aveva in questo equilibrio?

Difficile dirlo.

Per suo padre lei era l’eletto. Ma per sua madre?

Ero il confidente. Lei con me si sfogava: entrava nella mia camera, mi parlava di quel che la faceva star male, di quel che di mio padre la faceva soffrire. A me piaceva, pensavo: guarda che bel rapporto ho con la mamma! Ma poi, con il tempo, ho capito che era tossico: non era giusto che un genitore scaricasse sul figlio piccolo i suoi problemi. Ma mi piaceva, sì, mi faceva sentire speciale.

Insomma, era l’eletto sia per sua madre sia per suo padre, e del peso delle loro aspettative abbiamo detto. Li ha mai odiati, per questo?

Mai. Sono stato arrabbiato con loro, sì, ma non ho mai provato odio.

Cosa l’ha tenuta lontana dall’odio verso i suoi genitori?

L’amore. Mi hanno dato tantissimo amore.

L’adolescenza: il primo ricordo che le viene in mente adesso ha a che fare con Geova?

No, c’è una ragazza. E c’è il senso di colpa. E la vergogna.

Me lo racconta?

Ero alle medie, ed ero a casa di una mia amica. Non ero ancora padrone della scelta di cosa indossare, a deciderlo erano i miei, però, anche se fossi stato io non sarebbe cambiato: non avevo idea di cosa fosse figo e cosa no, non sapevo quali fossero i jeans, le felpe, le magliette da mettere. Così, ecco, mi andavano bene gli indumenti che compravano i miei genitori. Bene, ero a casa di questa mia amica, stavamo giocando alla lotta, ma niente di intimo o cose del genere, e lei è riuscita a sbottonare la mia tuta – era una di quelle con i bottoni sui lati, che si aprivano sulle cosce. Ha visto che indossavo un paio di slip color carne, proprio tipici dell’infanzia, e mi ha preso in giro.

Se li è più messi, gli slip color carne?

No.

Perché proprio questo episodio?

Credo che rappresenti l’adolescenza: un periodo in cui devi imparare anche a proteggerti, a farti schermo.

Sa, voglio bene al ragazzino che racconta, nel libro e oggi.

Quel ragazzino è il protagonista di un romanzo, ragione per cui è frutto anche di un taglia e cuci. Potrebbe esser stato pure uno stronzo, da adolescente.

Potrebbe.

Lo è stato, okay.

Valoppi, è stato un adolescente stronzo?

[Ride, ndr] Torniamo al romanzo.

Teme ancora il giorno del giudizio, come da bambino?

Non mi sono liberato del tutto delle eredità di mio padre e di Geova.

È un sì?

È un: ogni tanto ci penso.

Razionalmente?

Non proprio.

Vorrebbe esser uno dei 144mila che saranno salvati dopo l’Apocalisse?

Ma no, non più.

Da ragazzino trovava Babilonia attraente. Oggi?

Sì, direi di sì. Anzi, credo abbia modellato un po’ i miei gusti, in questo senso.

Ci pensa mai a chi sarebbe oggi senza Geova, a come l’ha modificata?

Certo. È stata una figura così presente nella mia adolescenza da aver di sicuro cambiato la mia vita sotto tanti aspetti.

Me ne faccia un esempio.

Le prime canne, al liceo: i miei amici fumavano tantissimo, io veramente poco e sempre con un certo timore. Alcune cose le evitavo, mentre altre, pur sapendo che andavano contro i dettami di Geova, le facevo ugualmente.

Tipo?

Il sesso. Sono stato precoce, in quello.

Non ci poteva neanche Dio.

Esatto.

Valoppi, avesse davanti il ragazzino di cui abbiamo parlato oggi. Il bimbo che nascondeva gli opuscoli e le bibbie, l’adolescente che non fumava con gli amici. Ecco, cosa gli direbbe?

Di vivere più liberamente. Di parlare, raccontarsi. Di non vergognarsi. Mai.

© Riproduzione riservata