La probabile assenza degli attori israeliani Gal Gadot e Gerard Butler, dopo le mobilitazioni pro Palestina, riaccende la tradizione delle contestazioni al Lido: dal ’68 al #MeToo, Venezia è sempre stata specchio delle tensioni del suo tempo
Sarebbe ingenuo pensare che il cinema e il mondo viaggino su binari separati, senza mai incontrarsi. A Venezia, invece, la Mostra del Cinema è sempre stata uno specchio del suo tempo: sul red carpet non sfilano solo star e registi, ma anche polemiche, boicottaggi e proteste che spesso hanno segnato la storia del festival quanto e talvolta più dei film.
Lo dimostra l’edizione di quest’anno, segnata dalla mobilitazione per la Palestina e dalla probabile assenza degli attori israeliani Gal Gadot e Gerard Butler, due dei protagonisti di In the Hand of Dante, attesissimo film (fuori concorso) di Julian Schnabel.
Il collettivo Venice4Palestine, con oltre 1.500 firme di registi, attori e artisti da tutto il mondo – tra cui Marco Bellocchio, Matteo Garrone, Ken Loach, Laura Morante, Alice e Alba Rohrwacher – aveva chiesto alla Biennale di prendere una posizione più netta contro la guerra a Gaza.
Per gli attivisti, i due attori rappresentano simbolicamente un sostegno pubblico al governo di Israele: Gadot, ex soldatessa dell’Idf e star di Wonder Woman, è da sempre schierata a favore dell’esercito del suo paese e dopo il 7 ottobre si è spesa apertamente per le famiglie degli ostaggi israeliani. Negli ultimi mesi è diventata bersaglio di campagne di boicottaggio, con contestazioni alle anteprime dei suoi film e persino il vandalismo sulla sua stella a Hollywood.
La Biennale ha risposto invitando all’apertura al dialogo, contro ogni forma di censura, e ribadendo che il conflitto sarà comunque rappresentato da alcune opere in concorso, come The Voice of Hind Rajab della regista tunisina Kaouther Ben Hania. Ma, evidentemente, non è bastato: sabato 30 agosto è in programma un corteo di protesta al Lido con lo slogan “Stop al genocidio – Palestina libera”.
Una Mostra fascista
Così, riavvolgendo il nastro della storia, è facile scoprire come la Mostra del Cinema sia stata, fin dalle origini, attraversata da proteste e influenze politiche, diventando un termometro fedele della temperie in cui si svolgeva.
Sul finire degli anni Trenta Venezia si trasformò in uno degli strumenti con cui il regime fascista costruiva il proprio culto: tra il 1937 e il 1942 furono proprio i film di propaganda a vincere i premi principali.
Durante la Seconda guerra mondiale la Mostra rimase di fatto riservata ai paesi dell’Asse o ai loro simpatizzanti, mentre le nazioni contrarie finirono inevitabilmente per boicottarla. Solo con il ritorno alla democrazia il festival poté riconquistare prestigio internazionale e tornare a essere davvero aperto al mondo.
La rivoluzione del ‘68
I riflettori così accesi resero la Mostra un palcoscenico ideale per le proteste politiche e culturali. L’episodio più emblematico resta quello del 1968, la 29ª edizione. Cinque giorni prima dell’inaugurazione, a pochi mesi dal maggio francese, l’Anac – l’associazione nazionale degli autori cinematografici – ritirò tutti i film italiani, in segno di boicottaggio contro lo statuto ancora fermo all’epoca fascista e contro l’establishment culturale.
L’iniziativa ricevette l’appoggio dei partiti di sinistra, ma non tutti i registi vi aderirono: Bernardo Bertolucci, Nelo Risi, Roberto Rossellini e Pier Paolo Pasolini decisero ad esempio di far proiettare comunque le proprie opere.
La protesta, però, sconvolse Venezia. Il giorno dell’apertura la polizia occupò il Palazzo del Cinema e la cerimonia inaugurale venne annullata. Il festival partì in ritardo e in un clima di forte contestazione, tra cortei e manifestazioni che denunciavano la Mostra come una rassegna ancora “fascista”.
Le conseguenze furono profonde: dal 1969 al 1979 la Mostra rimase di fatto non competitiva, senza Leoni d’oro, e in alcuni anni (1973, 1977 e 1978) non si tenne affatto.
Altre proteste
Ma anche in tempi più recenti Venezia è tornata a essere il palcoscenico di proteste e contestazioni. Nel 2001, a poco più di un mese dal G8 di Genova e pochi giorni prima che l’11 settembre sconvolgesse il mondo, una manifestazione all’ingresso del Palazzo del Cinema ha interrotto la serata inaugurale della 58ª edizione: sullo striscione campeggiava la scritta “G8, non cancellerete la verità”.
L’anno successivo, nel 2002, a far discutere sono state le nomine volute dal governo Berlusconi: la scelta di Franco Bernabè alla presidenza della Biennale e le pressioni sulla direzione della Mostra hanno provocato la minaccia di boicottaggio da parte di registi e produttori italiani, che hanno denunciato il rischio di una rassegna eterodiretta dalla politica. Nel 2010 sul red carpet è andata in scena la protesta dei poliziotti, "pugnalati alle spalle” per i tagli alla sicurezza.
Nel 2019, invece, le critiche si sono concentrate sulla scarsa presenza di registe donne in concorso (appena due su 21 film) e sulla controversa decisione di invitare Roman Polanski con L’ufficiale e la spia. La presenza del regista, condannato negli Stati Uniti per atti sessuali illeciti con una minorenne, ha diviso la giuria e il mondo del cinema, alimentando il dibattito sul rapporto tra opera e autore.
Nel 2023 le contestazioni si sono riassese, ancora in clima #MeToo. La selezione della 80ª edizione comprendeva film di registi controversi come Woody Allen, Luc Besson, oltre allo stesso Polanski, tutti accusati, in tempi e modi diversi, di violenze o molestie sessuali. La loro presenza al Lido ha scatenato proteste dentro e fuori dal festival.
Alla presentazione di Un colpo di fortuna, il nuovo film di Allen, un gruppo di attiviste ha interrotto l’anteprima con un flash mob: alcune donne a seno scoperto hanno mostrato lo slogan “Spegnete i riflettori sugli stupratori”. Parallelamente, il collettivo franco-italiano Tapis Rouge Colère Noire ha tappezzato i muri di Venezia con collage e manifesti intitolati Mostri in Mostra e scritte come “Festival sessista, risposta femminista”.
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