Avere a disposizione solo per lui tutto il Padiglione Italia della Biennale, le Tese delle Vergini dell’Arsenale, è un onore ma soprattutto una rischiosa sfida che Gian Maria Tosatti ha affrontato, insieme al curatore Eugenio Viola, realizzando un ambizioso progetto di trasformazione (trasfigurazione) di quell’immenso luogo in una suggestiva e melanconica serie di ambienti abitati da vecchi macchinari e altri reperti industriali tecnologicamente obsoleti e ormai impotenti, impregnati dalle memorie di generazioni di lavoratori. Sono i protagonisti immobili e silenziosi di una rievocazione metaforica dell’ascesa e del declino delle speranze e delle illusioni dell’ottimismo produttivo della società italiana dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso fino ai tempi recenti. Questi scenari, caratterizzati da una raffinata e ambivalente attrazione per il fascino estetico delle rovine della “civiltà delle macchine”, si propongono come una narrazione visiva che coinvolge i visitatori in un percorso che attraverso un’immersione anche nostalgica nel passato li porta a riflettere e meditare sulla gravità delle conseguenze drammaticamente attuali dell’industrialismo selvaggio che ha inquinato il suolo, l’aria e le acque, ed è causa del riscaldamento globale.

Una visione umanistica

Quella di Tosatti è una visione umanistica, impregnata da valenze filosofiche, letterarie e spirituali, che si ispira in questa occasione alla critica ideologica e politica del sistema capitalistico di Pier Paolo Pasolini, e in particolare a una affermazione di un suo “scritto corsaro” del 1975 di straordinaria tensione visionaria: “Darei l’intera Montedison per una lucciola”.

Ma l’artista va al di là del pessimismo apocalittico di Pasolini sul destino della nostra società, e nella parte finale della sua opera apre uno spiraglio, dopo il “diluvio”, facendo arrivare il visitatore davanti a una oscura distesa d’acqua dove sullo sfondo baluginano come delle lucciole delle luci lontane, come segni di speranza di un destino migliore. Questa parte finale si intitola Il destino delle comete, metafora delle precarie traiettorie della vita degli esseri umani, mentre la prima che si snoda in vari capannoni, è la Storia della notte che mette in scena la dimensione della crisi e della sconfitta.

Un macchinario teatrale

Tutti gli elementi, prelevati direttamente dalla realtà e reinseriti nello spazio delle Tese, funzionano come delle componenti di una sorta di macchinario teatrale complessivo che crea una straniante atmosfera di sospensione spazio-temporale quasi metafisica. La ricostruzione degli ambienti industriali sembra assolutamente fedele ai contesti d’origine, ma in effetti attraverso studiate strategie di installazione nello spazio, effetti di luce, e accorgimenti per portare l’attenzione su particolari elementi anche apparentemente marginali, gli oggetti si caricano di inedite valenze estetiche e di nuovi significati.

L’esperienza

Ma l’opera vive veramente solo attraverso l’esperienza diretta delle persone che sono disposte a esplorare, in silenzio, con la giusta attitudine mentale e fisica tutte le sue zone buie e in penombra fino al finale avvistamento delle lucciole. E per creare le condizioni più adatte a questa fruizione meditativa, i visitatori hanno il permesso di entrare solo uno per volta, ogni mezzo minuto. Davanti all’entrata del padiglione è stato costruito, con funzione di prologo, uno squallido avancorpo fatto di mattoni grigi granulati, pareti ondulate di eternit, dei contatori elettrici, un tetto in lamiera, e una vecchia porta metallica vetrata da cui si penetra dentro il primo capannone. Qui ci troviamo di fronte un imponente impianto con scale metalliche e nastri trasportatori immobili.

Un tubo al neon illumina una plancia con cavi elettrici e interruttori spenti. Tutt’intorno ci sono dei cassoni d’acciaio accatastati, dei carrelli e materiali vari, e anche dei complicati quadri di comando con degli schermi dove ancora pulsano debolmente delle lucine colorate, ultimi segni di vita di quell’organismo industriale. Lucine che sembrano fare da melanconico contrappunto a quelle finali.

Si passa poi nel secondo padiglione, un ambiente asettico grigio quasi vuoto che prende luce da un lucernario, con dei tubi aspiratori metallici e in plastica che pendono dal soffitto senza più alcuna funzione. L’aspetto è quello di una installazione ambientale minimalista-poverista. Attraverso una scala si arriva a una porta che dà accesso a una modesta stanza di un appartamento piccoloborghese vuoto illuminato da un lampadario a gocce di vetro, con un pavimento di mattonelle decorate, una finestra con tendaggi, un termosifone e un vecchio telefono a muro.

Una porta è aperta sulla stanza da letto arredata con delle brande senza materassi, una specchiera e un mobile, dove l’assenza umana diventa ancora più inquietante. Dalla finestra dell’appartamento si vede il successivo capannone a cui si può accedere da un’altra porta. In questo vastissimo ambiente si trovano decine di tavoli da lavoro con macchine tessili che sono ancora moderne e efficienti, e sembrano aspettare il ritorno al lavoro delle operaie e degli operai, un’attesa senza speranza.

Tutte le pareti sono però quelle scure e scrostate di un edificio abbandonato, dei murali “informali” di materia corrosa dal tempo. Un grande crocefisso appeso in alto (anch’esso un reperto della fabbrica) irradia un alone di patetica sacralità sul lavoro defunto. E dopo aver attraversato un luogo di carico e scarico, pervaso da una alienante atmosfera di abbandono, si arriva all’atto finale.

Una saracinesca si apre su ultimo capannone invaso da una distesa d’acqua scura e agitata, appena illuminata da dei lampioni lungo i lati (che sembrano spuntare da un piazzale allagato). Camminando in avanti su un pontile ci immergiamo in questa dimensione allo stesso tempo drammatica e onirica. Lontano sullo sfondo si intravvede una fitta costellazione di piccole luci che brillano: le lucciole pasoliniane, di cui si è detto, che sembrano annunciare l’avvio di una riconciliazione fra l’uomo e la natura. Sperando che questo accada realmente.

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