Quando uscì La vita agra, nel 1962, a Luciano Bianciardi, travolto da un inaspettato successo, fu offerto di collaborare al Corriere della Sera. Indro Montanelli, firma importante del giornale, si era molto divertito a leggere il romanzo di quel toscano come lui, quel romanzo che, a detta del suo autore, era sgorgato come «una grossa pisciata in prima persona», era nato da «una solenne incazzatura». Il libro vendette e fece discutere.

L’Italia del boom aveva trovato il proprio dissacratore che, con spavalderia, raccontava la storia di un provinciale maremmano giunto a Milano per far saltare in aria il «torracchione» (leggi grattacielo) di una grande azienda di idrocarburi, colpevole di aver ucciso 44 minatori.

Lo aveva scritto in forma di satira sociale, una satira venata di malinconia e alla fine rassegnata. Sì, perché il protagonista finisce con il rassegnarsi e integrarsi. L’autore invece no. Non si compromise, non si rassegnò, disse di no al Corriere, perché gli pareva incoerente mettersi a scrivere sul giornale dei padroni, anche se poi finì al Giorno del petroliere Enrico Mattei e poi sul settimanale Abc. E su una miriade di altri giornaletti, tra sport e pornografia.

Perché Bianciardi, anarchico grossetano, scrittore di grande talento, autore di due precedenti autobiografie mascherate da satira borbottante, Il lavoro culturale e L’integrazione, era uno che svicolava, voleva esserci però insieme non esserci, partecipare e insieme fuggire. Detestava Milano, dove arrivò negli anni Cinquanta, ci restò, se ne andò, ma poi ci tornò e qui morì a quarantanove anni di cirrosi epatica, nel 1971.

Il centenario

Corre infatti il suo centenario, visto che era nato nel 1922. Un centenario non particolarmente strombazzato, dove però sbuca un «Bianciardi in purezza» (Pino Corrias, che firma l’introduzione) intitolato Non leggete i libri, fateveli raccontare, pubblicato da Neri Pozza, nel quale sono raccolti sei pezzi che uscirono nel 1966 proprio su Abc, che insieme compongono un esilarante manuale per giovani intellettuali, una sorta di vademecum per chi volesse ascendere nell’industria culturale.

Insomma, far carriera nei giornali, nelle case editrici, purché, muove Bianciardi con bellicoso paradosso, «il giovane sia sfornito di talento». Anche perché, aggiunge poco dopo, giornali e riviste in Italia «servono poco», poiché «solitamente i critici da noi parlano poco del libro o spettacolo o dipinto che dovrebbero recensire, più che altro parlano di sé». Non basta: l’aspirante deve «munirsi di pipa» e poi «magari imparare e fumarla, perché è un ottimo riparo. Quando manca la battuta, o si vuole prendere tempo, ecco pronta la pipa, da mettere in bocca…».

Ossessione perenne

Bianciardi è caustico, e lo sguardo accigliato, sardonico gli veniva dalla provincia in cui era cresciuto, figlio di bancario e maestra, laureato a Pisa in filosofia dopo la guerra combattuta in Puglia come soldato semplice, poi insegnante e bibliotecario: legato da amore e odio alla sua terra di butteri, contadini e minatori.

Le condizioni di vita e di lavoro nelle miniere dell’Amiata lo avevano interessato fin da ragazzo, e con Carlo Cassola avrebbe poi firmato la prima inchiesta giornalistica sulla strage della miniera di lignite a Ribolla avvenuta nel maggio 1954 in cui muoiono 43 minatori. È ovviamente lì, in quel trauma, che nasce la «solenne incazzatura» che lo porterà a scrivere La vita agra, diventato poi film di Carlo Lizzani con Ugo Tognazzi.

Il caso di Bianciardi però è singolare dal momento che la sua ossessione, che caratterizza ogni buon scrittore, non si risolve una volta per tutte con il parto del libro, ma in lui mette radici come condizione perenne.

Bianciardi viene a Milano per lavorare ed effettivamente gli riesce, assunto dal giovane editore miliardario Giangiacomo Feltrinelli nella sua neonata casa editrice, ma poi il maremmano si fa licenziare. Nel manualetto racconta un aneddoto sicuramente autobiografico su una bislacca «pernacchia russa» che lui e due colleghi confinati in una stanza dell’ufficio somministravano alla cieca a chi si affacciasse alla porta.

Pernacchie o meno, perso il posto fisso, Bianciardi si dedicò alle traduzioni, lavorando senza pausa per anni, nella camera di una pensione di Brera e poi in un piccolo appartamento in zona Fiera, con quella che era diventata la sua donna, la giornalista e poetessa Maria Jatosti, con la quale ebbe un figlio, dopo aver lasciato a Grosseto la moglie con i primi due figli. Un privato dramma familiare che, sull’animo dello scrittore, pesò come un macigno.

Un arrabbiato vero

Bianciardi traduceva moltissima letteratura anglosassone, tra cui le celebri edizioni Feltrinelli di Henry Miller, i due Tropici, del Cancro e del Capricorno. Per Pino Corrias, suo biografo (Vita agra di un anarchico) l’identificazione con Miller giovò alla sua penna ma fece anche danni, spingendolo a un’esasperata bohème milanese sulla falsariga di quella milleriana a Parigi.

Il problema era anche un altro, e cioè che a differenza di Miller – che in fondo era un gaudente immune ai sensi di colpa – Bianciardi era un «arrabbiato vero», come disse di lui Giovanni Arpino, che «stava seduto sulle macerie di un romanticismo perduto». Un falso duro, insomma.

Uno falso scorbutico che, secondo quanto raccontava anche Giorgio Bocca, giocava a fare il guastafeste sulle terrazze della Milano che contava. Però la farsa dura poco, in fondo Bianciardi quella roba lì la detestava sul serio. Scriveva: «Qui continua il miracolo, dicono; tutti si comprano l’automobile, qualcuno anche il panfilo, e di tutto il resto se ne fregano. Ma non sono contenti: sono sempre incazzati».

D’altra parte, proprio Bocca disse a Pino Corrias: «Chi non ha visto la Milano di quegli anni non può capire la fuga a occhi chiusi verso il benessere e le radici della crisi economica e morale di oggi. Fingevamo di essere moderni, mentre avevamo alle spalle dei serbatoi immensi di manodopera sottopagata e le campagne abbandonate». Sembra una foto di oggi, coi rider che consegnano pizze gourmet alle due di notte.

Bianciardi era, come scrittore, la carta moschicida dove si andavano incollando tutte le contraddizioni e i conflitti di quel passaggio epocale in cui si definisce la dura legge dei «neo-padroni», come li chiamava lui, e si esaspera l’ingerenza dell’industria sulla forza lavoro, del potere politico sul giornalismo e l’industria culturale. Qui sta l’attualità della sua rabbia, amplificata della peculiare capacità che aveva Bianciardi di trasformarla in letteratura, in narrativa cavalcante di ritmo.

Tre terre straniere

Alle terrazze, ai salotti, di fatto, Bianciardi e Maria preferivano il Bar Jamaica e i suoi artisti, fotografi, artigiani, e la vita notturna un po’ equivoca dei cabaret, del Santa Tecla dove cantava Enzo Jannacci, le trattorie, le latterie. In Bianciardi comincia a farsi strada una stonatura interiore, una fitta dolorosa: va alla ricerca di quella Milano popolare perché infondo sente la mancanza della provincia e dei suoi piccoli riti.

Conclusa la trilogia dell’integrazione, Bianciardi torna a occuparsi della sua passione per il Risorgimento e Garibaldi, a cui aveva dedicato Da Quarto a Torino nel 1960 e a cui dedicherà La battaglia soda nel 1964. E la provincia la va a cercare, insieme a Maria, in Liguria, in un appartamento di Rapallo, dove però non trova quello che cerca, anzi.

Quello di Rapallo diventa un esilio, quando Bianciardi che aveva sempre bevuto forte, ormai è fisso nelle osterie della cittadina rivierasca, che gli fa una tristezza infinita, specialmente d’inverno. Continua a tradurre, fa avanti e indietro con Milano, scrive il suo ultimo romanzo, Aprire il fuoco nel 1969.

Milano e Rapallo: due terre straniere. A cui si aggiunge quella più inaspettata e forse lancinante, la sua Maremma. Dove torna alla fine alla ricerca del tempo perduto, ma ormai è un quasi cinquantenne che l’alcol e le sigarette hanno trasformato in un uomo senza età e senza più quello sguardo bonario che si vede in tante fotografie, la statura, i cappottoni, la chioma leonina.

Solitario, si era reso cavia di un esperimento altamente pericoloso: rifiutare le sirene dell’integrazione. E aveva scoperto che, salvo eccezioni, il risultato è la disintegrazione. Altro aspetto, questo, che lo rende attuale in modo inquietante.

Se ci si pensa, La vita agra lo aveva scritto, a inizio anni Sessanta, un quarantenne che anticipava di anni le proteste che nel 1968 sarebbero state fatte proprie da una generazione di giovani molto distanti dalla sua storia, dalla sua esperienza, dal suo vissuto. Bianciardi fu, tra gli scrittori del secondo dopoguerra, quello più fornito di antenne. E forse furono la sua rovina.

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