Scrivo questo pezzo in prima persona perché è così che mi hanno detto che si fa a Vice. Per essere più precisi «parti sempre da una tua esperienza personale» è stato uno dei primi consigli ricevuti da un redattore – o qualcosa del genere – quando, dopo diversi anni trascorsi a scrivere gratuitamente per riviste fatte da altri ventenni appassionati come me, per la prima volta mi fu chiesto un articolo per il quale sarei stata pagata.

Sembra un dettaglio da poco, ma non lo è affatto: per chi ha cominciato a scrivere sui cosiddetti magazine online negli anni Dieci del Duemila, come la sottoscritta, l’idea di ricevere un compenso era un miraggio, l’inizio potenziale di un percorso professionale.

Vice non solo pagava, anche piuttosto bene, ma ti catapultava in un universo di amore e odio, di lettori fedeli, scettici, incattiviti, spietati, aggressivi, di gente che lo considerava il male supremo, altra che lo considerava la cosa più divertente e interessante che fosse uscita dal primo vero decennio digitale. Potremmo dire che, in un certo senso, erano vere un po’ tutte queste cose.

«Coolness is not a renewable resource» dice uno dei soggetti intervistati nel documentario uscito su Mubi Vice is broke. In realtà, più che un documentario, quello di Eddie Huang, uno chef che per Vice conduceva il format di cucina Huang’s World, sembra un piatto freddo servito dopo anni di frustrazione mista a ossessione, sentimenti tipici di una storia d’amore passionale finita molto male.

Il club dei fighi 

Ma da dove nasce tutto questo risentimento? Dai soldi che Vice deve ancora a Huang, e che lui ha convertito in una missione di sputtanamento cinematografico, raccogliendo testimonianze di tanti ex dipendenti della Media Company più cool degli anni Zero, certo.

Ma anche, appunto, dalla coolness, quella di cui sopra, che il progetto di Shane Smith e Gavin McInnes – socio fondatore nonché futuro leader del gruppo suprematista Proud Boys – partendo da Montréal con una piccola fanzine e diventando un colosso mediatico da cinque miliardi di dollari, per poi dichiarare bancarotta nel 2023, ha creato attorno a sé per anni, fondando il proprio successo più che sulla qualità su elementi di coesione generazionale, di rottura col passato, di sfacciataggine giovanile.

Si supera tutto nella vita, tranne l’impareggiabile senso di soddisfazione e rivalsa adolescenziale di quando veniamo ammessi nel club dei più fighi – o quello opposto di quando veniamo rimbalzati – che in questo caso conteneva nomi come Spike Jonze e Ottessa Moshfegh, avvolti dal fascino ammaliante dei mattoni hipster di Williamsburg. Comprensibile perché Huang non l’abbia superata.

La storia dei rottamatori 

Rottamatori del vecchio giornalismo che puzzava di Novecento, deontologia e neutralità, la linea editoriale di Vice, ciò che lo rendeva un collante per millennial a metà tra due secoli, disorientati tra vecchi e nuovi media, spinti verso un futuro che abbonda del prefisso «post» (postmoderno, post-verità, post-ironia), a metà tra Matrix e le Torri Gemelle, era la spocchia volutamente autoreferenziale e incosciente con cui si ponevano i suoi autori.

Privi di alcun tipo di censura, i pezzi e i servizi di Vice – che aveva una sezione locale in tanti punti del mondo, compresa l’Italia, dove andava particolarmente bene – si lanciavano in audaci guide al sesso anale, reportage dalle feste Erasmus, decaloghi delle migliori droghe sintetiche, rubriche su ciò che si doveva e non si doveva fare per apparire, come al solito, cool.

Dos & Don’ts, storica quanto arbitraria sequela di regole elargite dalla redazione per imparare a vivere, vestirsi e comportarsi nei quartieri più alla moda di New York, era forse la quintessenza dello stile Vice, che non si limitava a manifestarsi in una scrittura rigorosamente in prima persona, modalità gonzo con una spolverata di Tom Wolfe, ma anche nelle forme quotidiane di quei consumi culturali che definiscono, molto alla larga, una generazione, se vogliamo usare questo termine vago ma efficace quanto meno a inquadrare una fascia di acquirenti in un determinato momento storico.

Sono anni in cui l’esplosione di internet capillarizza l’informazione, spazzando via la supremazia di tv, giornali e media tradizionali, in favore di un costante aggiornamento “liquido”, per così dire, di sicuro non più verticale e autorevole. In questo frangente, chi è nato troppo tardi per comprare i quotidiani in edicola tutti i giorni e troppo presto per informarsi tramite video generati con l’Ia su TikTok, trova il suo perfetto collocamento in una forma di racconto para-giornalistico in cui il soggettivo e l’oggettivo si mescolano, esattamente come succede sui social.

È così che le guide ai migliori kebab di Londra e i servizi in zone di guerra possono convivere sotto il grande tetto creato da Smith: il racconto dall’alto in stile Bbc o Cnn non basta più, i ragazzi e le ragazze coinvolti in un conflitto, per esempio, con le loro storie in prima persona, possono dare un punto di vista inedito e molto più emozionale su un fatto storico in corso.

La coolness di Vice fa da motore propulsivo per una narrazione vicina, anticipando il grande trend della comunicazione digitale del contemporaneo, il famoso POV di TikTok, il Point Of View che ci consente di entrare negli occhi e nella testa di chiunque abbia una fotocamera in mano.

Una rivoluzione, probabilmente in larga parte inconsapevole, o un semplice intuito per la forma che stava prendendo lo spirito del tempo: ognuno racconta, qualcuno ascolta. L’autorevolezza non è una questione di competenza ma di abilità nel far sembrare ciò che viene detto degno di essere preso in considerazione, di essere imitato, riprodotto; in altre parole, di avere coolness.

Un tentativo impossibile

E poi cos’è successo? Durante la crescita di Vice in tutto il mondo sembrava impossibile immaginare la sua fine, proprio come sembra impossibile immaginare la fine della propria giovinezza mentre la si sta vivendo. Se gli anni della rivista giovanile irriverente con quel piglio da circolo di eletti che la rendeva al contempo attraente e respingente sono stati gli anni della coolness, nessuno poteva prevedere che quelli successivi sarebbero stati gli anni del «cringe».

Sentimento di imbarazzo misto a repulsione con cui si bolla facilmente chiunque invada gli spazi e le comunicazioni idiosincratiche dei più giovani, il «cringe», tra le altre cose, espresso nei suoi toni ormai catalogati dai contemporanei come fuori tempo massimo, è anche una delle ragioni della fine di Vice.

I contenuti sponsorizzati fatti per l’Arabia Saudita, la trasformazione da testata indipendente e underground a enorme agenzia di comunicazione mainstream che infarcisce articoli e video di marchette di vario tipo, gravi errori di gestione imprenditoriale da parte di Shane Smith e, molto semplicemente, la fine di quella famosa risorsa non rinnovabile di cui parla Vice is broke.

Non è un caso, forse, che il finale dolce amaro del documentario, dopo la lunga rassegna di testimonianze spietate sull’ambiente di lavoro tossico in cui proliferava la coolness di Vice, sia nello studio di un tatuatore.

Vice è la versione giornalistica di un tatuaggio, tentativo impossibile di sintetizzare il momento e il futuro, l’istantanea di una fresca ribellione giovanile che, proprio perché fresca, non riesce a vedersi vecchia. Poi invece il tempo passa, e quel tatuaggio comincia a perdere colore, le sue sembianze diventano grottesche, lo stile obsoleto. Io però sono ancora qua che scrivo.

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