Leggendo quello che c’è scritto su alcune importanti etichette italiane ed europee non è raro imbattersi in un cortocircuito: vini che sono considerati come dei veri e propri ambasciatori dei propri territori non rientrano all’interno delle denominazioni di cui geograficamente fanno parte. È facile stappare teorici Chianti classico Docg che vengono commercializzati con la ben più anonima dicitura Toscana Igt, famoso tra i tanti il mitico Le Trame di Podere Le Boncie. Valdobbiadene Prosecco (sempre Docg) imbottigliati come Colli Trevigiani (Igt), è recente il caso di Ca’ dei Zago. Alto Adige Doc come generici Vino rosso, mai sentito parlare dei vini di Pranzegg? E l’elenco potrebbe continuare a lungo.

Etichette anonime

Il brillante Simon J. Woolf sul suo The Morning Claret ha ironizzato su questa situazione e ha scritto che quest’estate avrebbe provato a viaggiare visitando solo le località indicate sulle etichette di alcuni dei suoi vini preferiti. Un assurdo itinerario che dal generico Weinland austriaco avrebbe puntato verso l’altrettanto sommario Vin de France per poi approdare all’Instituto da Vinha e do Vinho (IVV) portoghese. Una provocazione che apre uno squarcio su qualcosa di molto attuale.

In passato, ha scritto, «l’etichetta fungeva da pratico strumento di orientamento. Hai raccolto del sauvignon blanc in un angolo orientale della Loira? Puoi mettere il nome del paese – Sancerre – sulla bottiglia. Sei particolarmente ambizioso? Grand vin de Loire è la dicitura che fa per te». Oggi è tutto diverso in quanto «gli appassionati vivono una situazione piuttosto strana: i vini più economici che fanno bella mostra sugli scaffali dei supermercati possono vantare in etichetta alcune delle denominazioni più prestigiose, mentre i vini più di avanguardia, venduti in enoteche specializzate, si trovano nella situazione di non avere in etichetta il nome della regione, del vitigno, addirittura in alcuni casi neanche l’anno della vendemmia».

Commissioni di degustazione

(AP Images)

Una situazione che nel tempo è stata raccontata con grande attenzione dal giornalista Angelo Peretti, che anni fa la sintetizzava così: «Perché un vino possa andare in bottiglia sotto l’insegna di una denominazione di origine controllata occorre che assolva a tre incombenze: che rispetti le previsioni del disciplinare, che sia sottoposto a un’analisi chimica e fisica in modo da verificare che i parametri siano quelli stabiliti dalla normativa, e che passi il vaglio della commissione di degustazione della società di certificazione della sua specifica Doc. Il punto debole del processo è il terzo».

Gran parte dei vini a denominazione di origine (in tutta Europa Dop ma in Italia anche Doc e Docg, in Francia Aoc, in Spagna Do e Doca, etc.) prima di venire commercializzati vengono infatti degustati da uno specifico panel, il cui obiettivo è tutelare il consumatore da prodotti non conformi alle indicazioni contenute nel disciplinare di riferimento, un insieme di parametri organolettici che i produttori devono prendere come riferimento. Simon J. Woolf su questo è perentorio: «Lo stile è soggettivo, a differenza della provenienza. Chi può dire che un vino leggermente torbido, prodotto con lieviti indigeni, sia più o meno tipico di un vino esteticamente perfetto ma chiarificato con la bentonite? Se la tipicità è un sostituto della tradizione allora un vino a basso intervento fatto alla vecchia maniera dovrebbe superare la degustazione senza difficoltà».

Il caso della Cantina Raína

Copyright 2021 The Associated Press. All rights reserved

Purtroppo non è così. Uno degli ultimi casi, almeno tra quelli che hanno fatto un po’ scalpore, riguarda Francesco Mariani, con la sua Cantina Raína talentuoso produttore di Montefalco, in Umbria. Per l’ennesima volta il suo bianco più importante, il Trebbiano Spoletino, non ha superato l’esame della commissione di assaggio che lo ha considerato ossidato. Un vino a dire il vero di rara integrità, che sconta il peccato di essere macerato sulle bucce, e quindi di presentarsi nel bicchiere con un colore molto carico, quasi aranciato. Una pratica tanto affascinante quanto ancestrale, che nel caso specifico ben si adatta a questa varietà tipica della “piana” che separa la cittadina di Foligno da quella di Spoleto. Una bocciatura che lo ha portato alla decisione di abbandonare ogni certificazione e di commercializzare tutti i suoi vini, anche i suoi Montefalco Rosso e Montefalco Sagrantino, come generici Umbria Igt.

L’ennesimo produttore che declassando la propria produzione smetterà di dare indicazioni geografiche precise, in etichetta, e di portare in giro per il mondo il nome della sua denominazione di appartenenza. Un peccato: il giorno che i membri delle Doc e delle Docg capiranno che questi allontanamenti vanno a minare la ricchezza e la varietà delle denominazioni stesse, sarà troppo tardi.

© Riproduzione riservata