Il Talebano l’ho conosciuto un giorno d’estate, in spiaggia, sul bagnasciuga sassoso e contaminato dalle scorie della vicina fabbrica Stoppani, che produceva tinture chimiche e le riversava in mare, e che ora, sebbene inattiva da decenni, è così profondamente inquinante da essere oltre ogni speranza di bonifica.
Sta lì, a poche centinaia di metri dalla spiaggia, e me la immagino espandersi in profondità, vari centimetri all’anno, affondare nelle viscere della terra, non sradicabile, più forte di noi.

Il Talebano era il nuovo fidanzato di mia sorella. Eravamo lì, soli, mentre lei era andata a farsi la doccia. Potevamo ancora vederla, in costume, con il fisico sportivo che ha sempre avuto, per pratica e per costituzione («con la percentuale di massa grassa di un uomo», dicono gli allenatori in palestra).
Infatti le basta pochissimo allenamento per sviluppare i muscoli, e ha una predisposizione per qualsiasi sport: sebbene siamo alte uguali, io sono brevilinea lei è longilinea.

Da bravo ragazzo del sud, voleva essere gentile con me, e pensò di farlo dicendomi: «Certo che tua sorella è un po’ sovrappeso, fa troppi aperitivi, mangia troppe schifezze».

Ah, ho detto. Voleva davvero essere gentile: era il suo modo per dirmi che si assumeva il compito, che arriva con varie responsabilità, con una certa dose di impegno, di guardiano di mia sorella, di tutore, di persona che ci tiene. Si dà il caso che mia sorella sia un rinomato spirito libero, eppure se ne esce sempre con questi fidanzati variamente morigeranti, come se volesse essere contenuta, stemperata. Come se volesse crearsi una gabbia da cui poi poter evadere, e in questo la capisco perché lo faccio anch’io. Non c’è libertà per me se non nella fuga. Ma fuga può essere solo da qualcosa, o da qualcuno.

Famiglia tradizionale

Il Talebano veniva da una famiglia tradizionale, con madre, padre e sorella, e anche se aveva quasi trent’anni vivevano tutti sotto lo stesso tetto, o quasi, in una periferia milanese in cui avevano comprato vari appartamenti vicini. Si usa, nella classe media, ricreare le famiglie allargate del meridione attraverso l’investimento immobiliare concentrato nella stessa zona.

Piccoli appartamenti nello stesso condominio o a un numero civico di distanza, comprati con i guadagni e talvolta le evasioni fiscali degli anni Novanta. Il Talebano faceva il taxista, così come suo padre faceva il taxista; in effetti guidavano lo stesso taxi, dividendosi i turni, e ogni tanto lo guidava anche la sorella, ma meno, perché la sorella aveva già «i bambini».

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I bravi ragazzi

Mentre sul bagnasciuga lui mi diceva che mia sorella era una mezza ubriacona e a buon punto sulla via della perdizione, io lo battezzavo Il Talebano. Non l’ho visto mai più. I nostri genitori, in compenso, non avevano mai voluto vederlo, non tanto perché era Talebano, ma perché era taxista; vedo la scorrettezza di questo atteggiamento, ma a quei tempi mia sorella studiava giurisprudenza e forse se la vedevano avvocata; forse a livello inconscio percepivano quello scivolare all’indietro nella scala dell’emancipazione.

Non parlo di emancipazione femminile, ma dell’emancipazione economica e sociale che ha occupato tante famiglie di questo paese nei decenni Ottanta e Novanta e Duemila. Essere ceto medio in Italia non è mai stato un privilegio avuto in eredità, quanto più una lotta strenua iniziata con l’ascensore sociale degli anni Settanta, con i primi laureati delle famiglie, e tanti trasferimenti dal sud al nord.

Mentre alcuni ricalcavano i valori del sud e, come spesso succede agli immigrati, li cristallizzavano, li distorcevano, altri abbracciavano con entusiasmo pieno lo spirito di Milano, posto in cui se vuoi puoi, o almeno potevi; se ti impegnavi, se ti ammazzavi di lavoro, guadagnavi, compravi una casa al mare, mandavi le figlie alle scuole della borghesia.
C’era questa differenza di valori, c’era poi quell’idea che le figlie vanno piazzate e vanno piazzate bene, a un bravo ragazzo medico, ingegnere, avvocato.

I meriti

Quindi, mentre io ero ostile per una ragione, e i miei erano ostili per un’altra, abbiamo lasciato mia sorella nelle mani del Talebano. Il Talebano la mise in un regime di allenamento al Parco Vettabbia, con piccoli attrezzi di Decathlon che si portavano dietro assieme ai cani; di passeggiate al fiume (il Ticino: pieno di tafani e lontano da Milano quasi quanto il mare), di tantissimo tempo passato a casa, con la mamma, che amava mia sorella come-una-figlia, e cucinava, puliva, eccetera. Di insalate con l’avocado.

Di nuovo: non so cosa sia questa mania salutista dei fidanzati di mia sorella. Ne modellavano il corpo per piegarne la mente. Ma il corpo di mia sorella rimbalza e si fortifica facilmente, mentre loro arrancano dietro di lei sorpresi; ogni tanto penso all’emancipazione femminile in termini fisici, penso a Simone de Beauvoir che dice: fatele crescere dai padri queste figlie. Toglietele all’asfissiante cappa della cucina, della casa, buttatele fuori, a cavallo, sugli alberi.

Non riesco a non simpatizzare con quel più che equivoco presidente della Camera quando dice che alle figlie fa fare il triathlon. Io dico di più: insegnateci a fare a botte. Cosa darei per saper tirare un pugno.

A un certo punto la mamma del Talebano si è ammalata. È stata una malattia oncologica, brutta e lunga, vissuta a casa, con varie visite nel dominio della medicina alternativa, quando con quella ufficiale non c’era più molto da fare. A casa sono transitati dei beveroni verdi.
Il Talebano a quel punto si era preso mia sorella, ma se l’era potuta prendere perché le ragazze se le prende il primo che passa: se le sorelle femministe si dissociano e i genitori borghesi rompono solo le palle con gli esami, dove vanno le ragazze? Dov’è il loro posto?

La casa del Talebano era un porto inizialmente accogliente e caldo. Poi, però, quel porto non lo si può più lasciare. Non ora che la mamma sta male, certo. Non ora che la mamma è appena morta, poverino. È iniziato un periodo di cura, cura di lui, cura dovuta perché è tua responsabilità stare lì accanto a questi uomini che da soli non sanno.

Questo Talebano incazzato e paranoico, però poverino, gli è appena morta la mamma. Nemmeno al Vettabbia si andava più, si stava a casa. Mia sorella aveva sempre un letto a casa dei miei genitori, ma lì la aspettavano menate infinite sugli esami, svalutazioni abbastanza calcate e non del tutto scollegate dalla situazione del taxista, e cioè dalla colpa di aver raccattato un cattivo partito, che era un fallimento tanto quanto essere indietro con gli esami di giurisprudenza.

C’è un merito legato all’avere un fidanzato presentabile, nelle nostre famigliole borghesi. E c’è un merito nello studiare. C’è anche un merito nell’avere un lavoro stabile. Questi tre meriti sono più o meno pari, ma in realtà un buon partito può anche cancellare le altre due colpe. Quindi forse non sono proprio pari.

Non inscalfibili

Alla fine, è stato il corpo a tirarla fuori da lì. Quel corpo che per i fidanzati rappresenta prima una sfida, poi una croce – prendersi carico di calmarlo, silenziarlo, è per loro un’incombenza che viene scambiata per amore; a questi uomini viene insegnato che è loro dovere impegnarsi, è loro dovere educare – e infine un nemico: il corpo di mia sorella sensuale e sfuggente come quello di un capitone, la lasciavi a casa dei miei e te la ritrovavi al Just Cavalli. Un giorno di primavera, ha preso un aereo per Ibiza. Apriva la stagione un certo dj che le piaceva, e addio.

È stato il corpo sempre, a salvare mia sorella. Per diversi motivi, siamo pazze e selvagge. E agli uomini facciamo paura: soprattutto ai Talebani. Ma i nostri corpi non sono inscalfibili: portano il segno di tutti gli anni che ci hanno rubato. I padri che ci vogliono avvocate, i fidanzati che ci vogliono a casa (un grande LOL per la pretesa, una grande tristezza per la parziale riuscita). Anni pieni e giovani. Madri ansiose, sorelle ostili. Chi salverà le ragazze?


Questo articolo è parte di una campagna di azione letteraria a cui hanno aderito più di 60 scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

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