È tornata nelle librerie italiane Yasmina Reza, l’artista del bisticcio, la regina dell’azzuffata verbale. Bisticciare non è discutere, e neanche argomentare, né ha niente a che spartire con il dibattito: bisticciare è parlare a sproposito, è spaccare il capello non in due, non in tre e neppure in quattro, ma in cento, in mille, in un milione di sottigliezze sempre più ridicole ed estenuanti. 

Da anni nei romanzi e nelle pièce della scrittrice francese vanno in scena risse, baruffe e accapigliamenti da primato. In Arte tre amici si azzuffavano sulla presunta mancanza di valore artistico di un quadro totalmente bianco acquistato per duecentomila franchi (quell’amico, guarda un po’, si chiamava Serge); nel Dio del massacro due coppie di genitori, per via di un piccolo bisticcio tra i rispettivi figli, si sbranavano in salotto.

Ora, in Serge, il nuovo romanzo di Yasmina Reza, il più litigioso è il padre dei tre fratelli Popper. Un uomo capace di venire alle mani e di rovinare un’amicizia decennale con un tale perché entrambi si vantavano di aver fatto scoprire Gustav Mahler all’altro.

Va da sé che un genitore tanto irritabile, i tre figli, soprattutto durante l’adolescenza, non perdevano l’occasione per contrariarlo. E ora che sono cresciuti, adesso che anche loro stanno invecchiando, si accorgono che il talento per l’umiliazione e per la mortificazione sono passati di mano e che, una generazione dopo, dalle loro lingue stilla lo stesso fiele che avvelenava le litigate del padre.

Tre fratelli

C’è il fratello di mezzo, Jean, quello senza grilli per la testa che per mestiere studia i cavi dell’elettricità, c’è Nana, la smorfiosa, perenne cocca di mamma e papà, e poi c’è Serge. E Serge è Serge, il primogenito, lo spericolato, il condottiero. L’irrequieto, il tarantolato.

Serge è quello che tratta tutti con rabbia o degnazione. «Incapace di rallegrarsi di essere in un posto senza aspirare subito a non esserci più».

Sin da ragazzo si vantava di essere un donnaiolo, ma allora era basso, grasso e brufoloso, i suoi capelli erano crespi e radi, e le compagne di scuola gli ridevano dietro. Ora dice di fare il consulente, ma è un intrallazzone senza portafoglio. Qualche anno prima giurava che in poco tempo sarebbe diventare leader nel settore delle creme spalmabili, ma adesso nessuno sa cosa faccia per campare.

Serge

Oltre a quello che comprava a suon di franchi una tela assolutamente bianca, c’era già stato un altro Serge nei libri di Yasmina Reza. Compariva tra le pagine di Felici i felici.

Quel Serge, alle prime avvisaglie dell’Alzheimer, diceva a tutti di volere andare in rue de l’Homme marié per sbrigare chissà quale affare, ma nessuno dei suoi amici aveva mai sentito neanche nominare questa via dell’uomo sposato.

Dove voleva andare, quel Serge? E alla fine si capì che Serge si riferiva a rue des Martyrs. La via dei martiri, non dei mariti. Confondeva gli uomini sposati con quelli che accettano il sacrificio fino alla morte. Insomma, già quel Serge non aveva una grande fiducia per l’istituzione matrimoniale.

L’eredità

«Non si dice abbastanza la leggerezza che procura l’assenza di eredità», dichiara con rammarico il fratello di mezzo. Lui, Serge e Nana, al contrario, hanno un’eredità famigliare estremamente ponderosa.

Alcuni parenti per parte di madre scomparvero nei convogli della primavera del 1944 e il nonno paterno morì insieme alla madre e alla sorella nel campo di concentramento di Theresienstadt.

Il padre, originario di una famiglia di ebrei viennesi, ha sempre idolatrato Israele, e per una vita, con i risparmi messi da parte facendo il rappresentante di un lubrificante per le gare automobilistiche, ha fatto donazioni all’esercito o a certi programmi per l’irrigazione.

La madre, invece, non nutriva, una grande simpatia per lo stato ebraico. E i tre figli, da che parte stanno? Del loro viaggio in Israele di quand’erano ragazzini, i tre non ricordano quasi niente, se non che Jean svuotò il suo piatto di hummus in una boccia di pesci rossi. 

Il viaggio ad Auschwitz

Quando muore la madre, i tre figli non si capacitano che lei, con tutto quello che ha passato la sua famiglia, abbia lasciato la disposizione di farsi cremare. Com’è possibile, si chiedono, che di sua spontanea volontà finisca in un forno crematorio una donna che ha avuto la famiglia sterminata ad Auschwitz? E se lo domandano seriamente.

Fino ad allora, a dirla tutta, i tre non si sono fatti granché carico dalla storia famigliare né hanno mai posto domande precise alla madre o al padre sulle generazioni precedenti alla loro.

Per questa ragione Serge e gli altri due decidono di andare ad Auschwitz. Si occuperà Nana di prenotare gli aerei, di scegliere un albergo a due passi dall’ingresso del campo e di riservare per la mattina una guida polacca.

Un vecchissimo amico di famiglia domanda a uno dei tre: «A parte farvi spennare dai polacchi, che ci andate a fare ad Auschwitz?». Già, cosa si va a fare ad Auschwitz? Cosa si va a fare a Birkenau, tra i tralicci ferroviari e le distese paludose? Come ci si deve comportare, quale espressione di dolore e di contrizione sarà opportuno assumere un volta varcata la porta della sala di gassificazione, le cui pareti interne sono rigate dalle unghiate, quelle pareti che tutti fotografano con il cellulare?

Una quindicina di anni fa il regista ucraino Sergei Loznitsa piazzò una telecamera sulle migliaia di turisti in visita a Sachsenhausen, un campo di concentramento a trentacinque chilometri da Berlino, e realizzò Austerlitz.

Lì dove furono uccisi trentamila ebrei, i visitatori passeggiano come fossero allo zoo o all’orto botanico. Hanno gli occhiali da sole, fischiano per chiamarsi. Qualcuno si fa una foto davanti ai forni crematori, qualcun altro si siede sull’erba vicino alle camere a gas per mangiare un panino, e altri ancora si mettono in posa davanti al cancello con la scritta “Arbeit macht frei”, per lo scatto più memorabile della giornata.

Nel documentario in bianco e nero si sente unicamente il cinguettio degli uccelli, il passo sull’acciottolato dei turisti e la babele linguistica delle guide che accompagnano i gruppi arrivati da ogni parte del mondo.

Nel romanzo della Reza sentiremmo anche Nana vacillare sul terreno erboso a causa dei suoi stivaletti con il tacco.
I figli Popper sono in delegazione ad Auschwitz, ai primi di aprile, e c’è da ammettere che nonostante i venticinque gradi all’ombra mostrano un contegno di raccoglimento dolente.

A dar loro un benvenuto inaspettato sono i tantissimi fiori: i lampioni foderati di boccioli, le fioriere dappertutto, bizzarre statue floreali a forma perfino di esquimese e gli effluvi di crema solare dei molti turisti in pantaloncini corti e canottiera. Discutono ovviamente anche lì, i tre fratelli.

Al ristorante gli uomini vorrebbero mangiare fuori, mentre le donne sono spaventate dalle zanzare e preferirebbero stare dentro. Vorrebbero lamentarsi del caldo, ma sono ad Auschwitz e si contengono.

La massima efficienza

Non riescono però a non accapigliarsi quando sono all’ingresso del campo I, lì non c’è feticismo della memoria che tenga, e se per colpa della prenotazione di Nana c’è da mettersi in coda vale la pena farsi una bisticciata.

Georges Didi-Huberman nel suo racconto fotografico Scorze, realizzato ad Auschwitz nel 2011, fotografò una baracca che era stata trasformata in uno stand commerciale.

Si potevano acquistare videocassette, libri, opere pedagogiche sul sistema dei campi di concentramento, e tra gli articoli più venduti c’era un fumetto che raccontava le storie d’amore di una prigioniera e di un guardiano del campo di concentramento.

«La sola cosa che si impara da questi memoriali – disse il regista di Austerlitz, Sergei Loznitsa – è che la tecnica di assassinio di massa era molto efficiente». E la prima cosa che si impara dalle storie di Yasmina Reza è che l’uomo, quanto più è vitale, o si reputa tale, più esige la massima efficienza quando c’è da litigare con il suo prossimo, anche quando si è tra fratelli, anche quando mancherebbe l’odio per farlo.

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