Un caricaturista inglese sosteneva che tra i più grandi terrori dell’umanità fossero annoverabile quelli che la mattina raccontano i propri sogni agli scalognati con i quali stanno facendo colazione. Può darsi pure che questa intuizione risponda al vero, soprattutto nella maggior parte dei casi, ma allora come considerare, in quella stessa ipotetica scala del terrore, coloro che ai quattro venti spettegolano su sé stessi senza pudore né commiserazione? Cosa dire di Veronica Raimo che ha appena pubblicato con Einaudi un libro, Niente di vero, in cui inanella una dopo l’altra dicerie sul proprio conto in modo tanto imprudente e gioioso? Raramente la spudoratezza riesce a essere così indiscreta senza essere sguaiata o pittoresca.

Non credo sia possibile scrivere un simile libro senza un certo abbandono, senza quasi auspicarsi che la mano destra non sappia cosa nel frattempo stia facendo la sinistra, senza accettare una condizione di temporanea esaltazione e perciò oblio del proprio ego. I medici di epoca vittoriana si chiedevano se le persone potessero arrossire quando erano sole. Per quella che è la mia conoscenza della timidezza, risponderei loro che sì, le guance possono avvamparsi anche se siamo da soli.

Una vanità sfacciata

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In questo libro non credo ci sia timidezza, invece, e soprattutto sembra non esserci vergogna. Plutarco la considerava «una delle più grandi e profonde crepe che possano essere inflitte al nostro spirito». Secondo Jean-Paul Sartre aveva l’effetto di un’emorragia. Per la vergogna, stando alla mia conoscenza diretta, si vorrebbe scomparire. Veronica Raimo, al contrario, non vuole scomparire agli occhi degli altri, al contrario, senza disagio, lei desidera esibirsi in un autoritratto spassoso e smaliziato. La sua vanità, il suo narcisismo sono quelli della sfacciataggine.

Parlare d’infanzia può vuol dire, se in quegli anni si è stati fortunati, parlare di convalescenze: evocare scarlattine, ricordare pleuriti, e tornare con la memoria alle loro beatitudini. Il tempo coricati a letto. Le letture svaganti. La spossatezza, il soffuso delirio di certi piccoli morbi che ti tenevano lontano dalla scuola.

Veronica Raimo in quel periodo della vita immaginava di essere una popstar sempre in concerto, perennemente occupata a firmare autografi e a zigzagare tra gli spasimanti. E intanto, a dispetto dei suoi coetanei, non imparava né a nuotare né ad andare in bicicletta. Né a pattinare né a saltare la corda. E se provava a scappare di casa, le sue fughe fallivano presto.

Quando negli Stati Uniti si riscontrò che gli autori di un gran percentuale delle sparatorie erano gli impiegati postali, scontenti del proprio impiego, si iniziò a utilizzare nel gergo comune l’espressione going postal per designare un attacco d’ira avvenuto sul posto di lavoro e poi, in modo generico, una qualsiasi arrabbiatura. Qui da noi, dove buona parte dello sconcerto e della collera, passa nelle mura domestiche, potremmo indicare la sconsolate e imbarazzanti liti che cadenzano la vita di ciascuno con l’espressione going family.

Nelle case d’oggi, nelle città d’oggi è tutto a misura d’uomo, tutto, proprio tutto, tranne la famiglia, e figurarsi se è a misura di donna. Così sono anche i consanguinei di Veronica. E finalmente, dopo tutte le famiglie disfunzionali che hanno sovrappopolato la narrativa di questi anni, ecco una famiglia funzionalissima: una madre perennemente nel panico e agghiacciata dall’ipotesi che il figlio maschio possa morire da un istante all’altro, e intanto magicamente aggiornata sugli spostamenti della figlia al punto da saperla trovare ovunque; un padre che dopo Chernobyl esige che alla loro tavola si consumino solo prodotti confezionati prima dell’aprile del 1986; e un fratello precocemente brillante, inquisitore sarcastico e consigliere a volte pedante a volte elusivo.

Un libro incauto

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I suoi parenti, riferisce Raimo, sono tutti esimi russatori. Confessa l’odio contraccambiato con la nonna materna, rivela il suo disagio per aver sempre ricevuto in regalo dal dodicesimo compleanno in poi un reggiseno – un reggiseno, proprio a lei, che dice di essere l’unica donna della famiglia a non avere pressoché seno – e racconta la scontata mancanza di un’educazione sessuale in famiglia («Quando dissi a mia madre che volevo andare dal ginecologo, la prese come una provocazione»).

Questo è un libro sulla vergogna come può esserlo un libro senza vergogna. Incauto. Impudico. Il trucco dell’autrice è quello di apparire senza moine e senza artifici. Di quel che si racconta, non è importante la verosimiglianza, ma il talento nell’autosuggestionarsi. Finire con il credere che non si stia mentendo: è questa la premessa necessaria per convincere gli altri.

È questo uno dei primi talenti dell’autrice che ci racconta la stitichezza, l’insonnia, l’auto erostimo. Eppure è così difficile scrivere di sé e delle proprie imprese. Valutare con misura ciò che si è fatto nel corso di una vita. Roger Martin du Gard ricordò quella volta che Marcel Proust, desiderando che qualcuno recensisse il suo grande romanzo e pensando che nessuno avrebbe potuto farlo meglio di lui, decise di scrivere l’articolo di suo pugno.

Chiese poi a un giovane intellettuale di firmarlo e di consegnarlo alla rivista su cui desiderava apparisse. Qualche giorno dopo il direttore del periodico convocò il giovane e gli disse che non avrebbe potuto pubblicare il suo articolo: «Proust non mi perdonerebbe mai se pubblicassi una critica tanto fredda e malevola sul suo lavoro».

Neanche il più avvertito e coscienzioso tra gli scrittori insomma, si accorge di quanto risulti insoddisfatto del proprio lavoro, quando gli capita di parlarne. E neppure il più lucido degli esseri umani sarà mai sufficientemente lontano dalla propria pelle e dal proprio cuore per raccontarsi in un modo affidabile. Nessuno è attendibile quando parla di sé. Mente, ricorda male, soprassiede.

L’illusione dei segreti

Il suo segreto è quello di illuderci di averci appena svelato i suoi segreti più intimi e inconfessabili. Quando capita che le domandino perché sia diventata scrittrice, lei risponde che deve ringraziare tutta la noia che le hanno trasmesso i suoi genitori. Josè Bergamin, del resto, scriveva che «la noia dell’ostrica produce le perle». Da ragazza teneva un diario per mentire a sua madre, ora forse ha scritto questo libro per rivolgere le stesse bugie a sé stessa.

Niente di vero non è una macchina della verità, un poligrafo a cui Raimo si sia sottoposta di sua spontanea volontà per valutare la credibilità delle proprie affermazioni. Non sapremo cosa tra queste pagine sia vero e cosa non lo sia. Tutto è pur sempre finzione, tutto è immancabilmente invenzione. A meno che a piè di pagina non ci sia il timbro di un medico o di un notaio, tutto ciò che leggiamo lo è.

Mi ricordo questa performance dell’artista francese Sophie Calle: negli stessi giorni in cui assunse anonimamente un investigatore privato a cui chiese una relazione dettagliata dei suoi movimenti e dei suoi incontri, con relative fotografie, lei teneva un diario particolarmente dettagliato di quel che faceva.

I due resoconti differivano enormemente, non sembravano neanche descrivere le stesse giornate della stessa persona. È forse una buona dimostrazione della nostra incapacità di dire persino cosa abbiamo fatto oggi, impossibilitati a particolareggiare il racconto della nostra giornata senza dare opinioni, giudizi, senza scegliere chissà quanto consapevolmente cosa omettere e cosa inventare.

Veronica Raimo, per non rischiare che certi episodi della sua vita si mimetizzassero con il resto, ha raccolto in questo libro le scaramucce più memorabili tra sé e gli altri, tra sé e il suo corpo. Come un tempo si faceva un fiocco al fazzoletto, per non dimenticare una cosa importante. E se scrivere romanzi, come sosteneva la svizzero Max Fricsh, dà l’opportunità di «provare storie come abiti», Veronica Raimo ha intanto riempito il suo guardaroba di cinture, scarpe, foulard e gioielli in vista magari del gran galà dell’autobiografia, per quando si sarà più vecchi di così. E anche allora come adesso, che sia vera o che sia finta, la sua sarà sempre la sola e unica versione che avremo. Niente di vero; tutto di Vero; tutto di vero; niente di Vero.

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