David A. Bell insegna Storia alla Princeton University ed è autore di Men on Horseback: The Power of Charisma in the Age of Revolution (Farrar, Straus and Giroux, 2020).

«E se tutto quello che abbiamo imparato sulla storia umana fosse sbagliato?». Così il New York Times ha intitolato il suo articolo in occasione dell’uscita di The Dawn of Everything: ​​A New History of Humanity di David Graeber e David Wengrow.

Il libro, che attinge a prove archeologiche per offrire una storia nuova delle prime società umane sviluppate, non manca di ambizione. Contiene anche una potente presa di posizione politica, suggerendo che la nuova storia che racconta può ispirare un’azione politica in linea con i principi anarchici che Graeber, in particolar modo, ha abbracciato per molto tempo. E anche prima della sua pubblicazione questo mese, il libro ha ricevuto un’accoglienza entusiastica.

Sull’Atlantic, William Deresiewicz ha scritto che Graeber è «un genio» e che il libro è «un regalo» in cui gli autori «distruggono l’idea che gli essere umani sono oggetti passivi di forze materiali». Il recensore del Guardian l’ha definita «una lettura esilarante». Per Jacobin era «un classico da subito». Questa settimana è al secondo posto nella classifica del Times dei libri più venduti nella saggistica.

Graeber, scomparso nel 2020 all’età di 59 anni, è stato una figura leggendaria nel mondo accademico, un antropologo ribelle che ha fatto molto per ispirare e dare l’avvio al movimento Occupy.

Ma la loro versione della storia regge? Anche se Graeber e Wengrow si occupano principalmente della storia dell’umanità degli inizi, partono da un’analisi di come i pensatori occidentali hanno affrontato l’argomento in precedenza e così facendo si rivolgono dapprima all’Illuminismo francese.

Capita che questa sia la mia area di competenza ed ero quindi curioso di vedere cosa dicevano. Francamente, sono rimasto allibito. Purtroppo, nonostante le promesse, questo lavoro è molto trascurato e pieno di errori su questo momento chiave della storia intellettuale moderna.

La critica indigena

Graeber e Wengrow concentrano la loro discussione sull’Illuminismo, non a caso, sulla figura di Jean-Jacques Rousseau. Nel Discorso sulle origini e il fondamento della disuguaglianza tra gli uomini del 1754, che ha avuto un’enorme influenza, Rousseau formula congetture sugli esseri umani nel loro “stato di natura” originale e nelle prime fasi dello sviluppo sociale.

Qui, postula, come hanno affermato Graeber e Wengrow, che «c’è stato un tempo in cui gli esseri umani erano uguali, e poi qualcosa è successo che ha cambiato questa situazione».

Graeber e Wengrow chiamano questa intuizione «una cosa piuttosto sorprendente per persone che vivevano sotto una monarchia assoluta». Sostengono che nella Francia del Diciottesimo secolo «quasi ogni aspetto dell’interazione umana… era segnato da una elaborata scala gerarchica e da rituali di deferenza sociale».

Dunque, come è arrivato Rousseau a questa visione e perché così tanti dei suoi contemporanei ne erano convinti? La loro risposta esplosiva è che gli europei hanno iniziato a farsi delle domande sull’uguaglianza in questo modo soltanto quando sono stati spinti a farsele dagli indigeni americani.

Il capitolo che segue sviluppa quella che definiscono la «critica indigena» della società europea e il modo in cui ha scatenato una «rivoluzione concettuale» europea. Aggiungono che gli storici europei delle idee, che hanno l’abitudine di «infantilizzare i non occidentali», hanno effettivamente soppresso la storia: «Tra gli storici intellettuali tradizionali oggi è quasi un’eresia». Ma alcuni studiosi, «molti dei quali hanno origini indigene», hanno cominciato a parlarne e «qui seguiamo le loro orme». 

È una chiamata alle armi stimolante e provocatoria, e per me, che sono uno studioso dell’Illuminismo, è anche problematica. Se fosse vero, stravolgerebbe quasi tutto ciò che pensavo di sapere del mio ambito di ricerca. Su cosa si basano le affermazioni di Graeber e Wengrow? Sanno davvero di cosa stanno parlando?

La storia dell’uguaglianza, come concetto, è lunga e complessa. Nel mondo occidentale ha tante radici: in particolare nella filosofia dell’antica Grecia, nella tradizione romana del repubblicanesimo civico, e naturalmente nell’ebraismo e nel cristianesimo.

«I primi siano gli ultimi e gli ultimi, i primi». «Non c’è più ebreo o greco, schiavo o libero, uomo o donna; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù». È «più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio». 

I francesi del Diciottesimo secolo potrebbero non aver avuto molta esperienza di uguaglianza nelle loro vite quotidiane, ma potevano trovarne molte evocazioni nei loro libri scolastici e nelle scritture.

L’apparente disprezzo di Graeber e Wengrow per questo luogo comune della storia intellettuale ha già offerto un segnale di avvertimento. Eppure, l’esistenza di questa eredità intellettuale non ha precluso la possibilità che i pensatori indigeni spingessero il pensiero europeo sull’uguaglianza in una direzione fondamentalmente nuova. È andata veramente così?

Inesattezze su Rousseau

Proprio all’inizio del capitolo, Graeber e Wengrow offrono ai lettori una grande ragione per dubitare del loro studio. Jean-Jacques Rousseau compose il suo saggio del 1754 come contributo per un concorso di saggi sponsorizzato dalla dotta Accademia di Digione.

Graeber e Wengrow scrivono che «gli autori che hanno presentato i loro saggi per questo concorso erano uomini che hanno passato la vita avendo tutte le loro necessità soddisfatte da servi… Rousseau era uno di questi uomini: un giovane filosofo ambizioso, all’epoca impegnato in un elaborato progetto per cercare di avanzare in modo sporco nella carriera. La cosa più vicina a un’esperienza di uguaglianza sociale a cui sarebbe probabilmente mai arrivato sarebbe forse stato il taglio di una torta in fette uguali a una cena».

Queste brevi frasi contengono una raccolta di errori semplicemente sbalorditiva. Come chiunque saprebbe da una rapida lettura di Wikipedia, Jean-Jacques Rousseau non era affatto un membro dell’alta borghesia francese. Era figlio di un povero artigiano di Ginevra e aveva lavorato come domestico in famiglie aristocratiche vivendo per molti anni in assoluta povertà. Nel 1754 aveva 42 anni, non era dunque proprio giovane.

Quanto all’affermazione circa il tentativo «di avanzare in modo sporco nella carriera», non ho idea di cosa Graeber e Wengrow intendano, se si considera che due anni prima Rousseau aveva rifiutato una comoda sinecura offerta dalla corte francese per preservare la sua indipendenza morale. Tutto questo è risaputo perché Rousseau stesso lo ha raccontato in quella che è ancora forse l’autobiografia più famosa di tutti i tempi: le Confessioni.

Errori di questo tipo non fanno ben sperare, come minimo, ma non sono ancora, di per sé, cruciali per l’argomento di Graeber e Wengrow. Purtroppo il resto del capitolo è altrettanto sciatto e inesatto.

La letteratura di viaggio

Gli autori partono da un punto corretto, ma anche incontrovertibile e non originale, e cioè che «gli intellettuali europei erano arrivati a elaborare l’idea di libertà primordiale» in gran parte grazie alla letteratura di viaggio che gli aveva fatto conoscere le società non europee, soprattutto quelle che non avevano grandi stati organizzati.

Dai tempi di Colombo, le opere che descrivevano le pratiche religiose, politiche, sociali e sessuali di tali società avevano affascinato e provocato i lettori europei. Qui trovavano gli esempi di persone che vivevano senza le gerarchie sociali che rimbambiscono e le restrizioni morali che caratterizzavano gli stati europei.

Soprattutto c’erano persone che vivevano senza conoscere il cristianesimo. Eppure spesso sembravano più sani e più felici degli europei, e abbastanza capaci di argomentare in termini sofisticati contro i missionari europei che cercavano di convincerli dell’errore dei loro modi.

Alla fine del Sedicesimo secolo, Michel de Montaigne sostenne notoriamente che anche se alcuni nativi americani mangiavano carne umana, erano gli europei, con le loro feroci persecuzioni e guerre di religione, i veri «cannibali».

Non è sempre facile estrapolare dai testi europei che ne fanno menzione ciò che effettivamente le popolazioni indigene hanno detto. Tuttavia, le loro voci non sono state in alcun modo cancellate del tutto o oscurate.

I resoconti missionari, specialmente quelli conosciuti come Le relazioni dei gesuiti, sono stati scritti in parte per istruire i futuri missionari su cosa potevano aspettarsi nelle loro missioni. E dunque in genere facevano ogni sforzo per riferire accuratamente sui costumi indigeni e sugli argomenti che le popolazioni indigene potevano addurre in risposta ai tentativi di conversione al cristianesimo.

Graeber e Wengrow dedicano molte pagine a questa letteratura. La loro indagine, tuttavia, non fa che ripetere i punti che molti studiosi – Anthony Pagden, Tzvetan Todorov, Sankar Muthu, Michèle Duchet, David Allen Harvey e Antoine Lilti, solo per citarne alcuni – hanno fatto prima di loro.

E anche se hanno ragione nel dire che questa letteratura ha avuto un ruolo nella genesi del pensiero illuminista, così hanno fatto molte altre cose: la rivoluzione scientifica, la disputa tra antichi e moderni, le idee religiose radicali di Baruch Spinoza, la nascita della stampa periodica, la critica alla monarchia assoluta.

La figura del selvaggio

Illustrazione Wikipedia

Il pensiero illuminista, sull’uguaglianza tra gli uomini così come su molte altre questioni, ha avuto radici molteplici e complesse. Per sostenere che la “critica indigena” ha contato più di ogni altra cosa è necessario guardare all’Illuminismo nella sua piena complessità e soppesare i diversi elementi a confronto. Graeber e Wengrow non lo fanno.

La parte veramente oltraggiosa della loro analisi, tuttavia, va oltre la semplice ripetizione di luoghi comuni e un’enfasi esagerata su una parte della storia. Graeber e Wengrow non attribuiscono soltanto il pensiero illuminista sull’uguaglianza alla “critica indigena” in generale, ma a un “intellettuale indigeno” in particolare.

La figura in questione si chiamava Kandiaronk, una figura di spicco della tribù dei nativi americani nota come Uroni o Wendat o Wyandot. Dopo la distruzione della loro terra da parte degli Haudenosaunee (Irochesi) nel Diciasettesimo secolo, molti di loro finirono nel Canada francese.

Kandiaronk impressionò molti osservatori francesi con la sua eloquenza e genialità, incontrò spesso il governatore reale, il conte Louis de Buade de Frontenac, e potrebbe essersi recato in Francia.

Nel 1680 quasi certamente incontrò un giovane soldato francese dal nome sofisticatamente aristocratico di Louis-Armand de Lom d’Arce, il barone Lahontan, che viaggiò molto nel Nord America e imparò le lingue dei nativi americani.

Lahontan tornò in Europa all’inizio del 1690 e dieci anni dopo pubblicò una serie di opere sul Nord America, tra le quali una nota con il titolo di Dialoghi con un selvaggio. Si proponeva come un’accurata ricostruzione delle discussioni tra lui e un urone che chiamava “Adario”, dialoghi in cui l’urone brillantemente confuta gli argomenti di Lahontan sulla verità e la superiorità del cristianesimo e, più in generale, critica i costumi europei. Questo personaggio si basava almeno in parte su Kandiaronk.

I Dialoghi di Lahontan si inseriscono in una lunga tradizione europea di quella che Anthony Pagden chiama la tradizione del «critico selvaggio». Risale almeno fino a un’opera anticlericale spagnola del 1519 che presentava un capo nativo americano che esponeva le illusioni della società cristiana europea.

Sebbene spesso informate da incontri con popolazioni indigene e da opere come le Relazioni dei Gesuiti, queste opere erano però fondamentalmente di fantasia. I critici hanno quasi sempre creduto lo stesso dei Dialoghi di Lahontan. L’opera ha evidentemente un debito stilistico nei confronti dell’antico satirico greco Luciano.

L’esposizione di Adario della religione degli Uroni ricorda sospettosamente il deismo europeo contemporaneo. La sua critica alle usanze matrimoniali dell’Europa fa eco a molte opere europee del periodo, comprese quelle del filosofo proto-femminista François Poulain de la Barre.

In breve, i Dialoghi sono un classico lavoro del primo Illuminismo che mescola osservazioni sulle società non europee con argomenti tratti dalle tradizioni intellettuali europee per creare un pensiero nuovo e radicale sulla società, la politica e la religione, il tutto reso più piccante dalla figura del “selvaggio” saggio che deliziosamente rivela l’assurdità e il danno di un’usanza europea dopo l’altra.

Era anche solo una delle tante opere che utilizzavano strumenti simili, come le molto più conosciute Lettere persiane di Montesquieu del 1721 e le Lettere di una donna peruviana di Françoise de Graffigny del 1747. Lahontan ha certamente influenzato Rousseau, ma anche molti altri.

La veridicità delle fonti

Graeber e Wengrow, tuttavia, insistono sul fatto che i Dialoghi di Lahontan abbiano avuto un’influenza maggiore di qualsiasi altro di questi altri libri. E, cosa ancora più importante, insistono anche sul fatto che non si trattava di  un lavoro di fantasia, ma della ricostruzione di dialoghi reali tra Lahontan e Kandiaronk.

Lungi dall’essere un personaggio immaginario ideato da un europeo per criticare la propria società, “Adario” era un vero intellettuale indigeno le cui potenti parole hanno stupito gli europei con la forza della verità e hanno costretto a una fondamentale rivisitazione delle nozioni europee di uguaglianza. È un’affermazione notevole.

Ma su cosa si fonda? Graeber e Wengrow citano tante fonti diverse nelle loro dense note a piè di pagina, ma non tutte effettivamente supportano la loro tesi.

Lo studioso canadese John Steckley, ad esempio, in un articolo che citano, scrive a proposito dei Dialoghi: «Anche se alcune frasi suonano dei nativi, e potrebbero essere state prese dai discorsi di Kandiaronk, la voce critica di Adario di una purezza incontaminata parla con l’accento intellettuale stanco di Lahontan. Riflette una ricchezza di esperienze amare che il barone ha vissuto nella società europea in ambiti della vita che non hanno toccato il Wyandot del Michilimakinac». Questo non supporta esattamente l’affermazione che compare in The Dawn of Everything.

La fonte più importante a cui attingono Graeber e Wengrow è un libro intitolato Native American Speakers of the Eastern Woodlands di Barbara Alice Mann, una studiosa della discendenza di Seneca. Graeber e Wengrow non solo la citano a lungo, ma parafrasano strettamente le sue argomentazioni.

Mann ha sostenuto che «liquidare semplicemente» i Dialoghi come un’autentica trascrizione di una voce dei nativi americani rifletteva razzismo e l’«irrisione occidentale». Sostiene infatti che un «Lahontan ammaliato» prendeva appunti elaborati mentre conversava con Kandiaronk e poi li metteva insieme nei Dialoghi.

Qual è però la prova principale di Mann? Nel suo libro cita trionfalmente lo stesso Lahontan: «Quando ero nel villaggio di questo [nativo] americano, mi sono assunto il piacevole compito di annotare attentamente tutti i suoi argomenti. Non appena sono tornato dal mio viaggio ai laghi canadesi, ho mostrato il mio manoscritto al conte Frontenac, che è stato così aggradato dalla lettura che ha fatto uno sforzo per aiutarmi a sistemare questi Dialoghi nella loro forma attuale».

Il caso sembra inconfutabile, tranne per un punto importante: queste parole provengono dalla prefazione ai Dialoghi stessi. Come sa chiunque abbia familiarità con la narrativa europea, non c’era presunzione più comune per gli autori europei di questo periodo che presentare un’opera di fantasia come un resoconto di prima mano di eventi reali.

«L’autore di questi viaggi, il signor Lemuel Gulliver, è un mio antico e intimo amico». Così Jonathan Swift iniziava la sua opera di narrativa più famosa, ma pochi dei suoi lettori credettero che un vero Lemuel Gulliver avesse effettivamente visitato una terra chiamata Lilliput. Né credettero che i vendutissimi romanzi Pamela e Clarissa fossero vere raccolte di lettere.

Se studiosi seri non sono riusciti a dare molto credito al lavoro di Mann, non è a causa del razzismo o dell’«irrisione occidentale», ma perché le sue argomentazioni su questo punto semplicemente non reggono.

L’errore

L’errore che fa Mann – e che Graeber e Wengrow acriticamente ripetono – è in qualche modo comprensibile. Può essere molto allettante scambiare le critiche occidentali dell’occidente, messe in bocca agli “indigeni”, per quelle autenticamente indigene. La lingua è familiare e gli autori sanno esattamente quali corde faranno vibrare nel loro pubblico.

Le critiche genuinamente indigene, che emergono da tradizioni con cui le persone cresciute in ambienti occidentali non hanno familiarità, possono sembrare molto più strane e difficili. La reductio ad absurdum di questo errore si ha quando si prendono come autenticamente native americane le parole di Pocahontas nell’omonimo film della Disney: «Pensi di possedere qualunque terra su cui atterri / La Terra è solo una cosa morta che puoi rivendicare».

L’errore è anche, ovviamente, profondamente politico. Si attaglia a quello che Graeber e Wengrow descrivono nelle loro conclusioni come uno scopo principale del libro: «[Esporre] la sottostruttura mitica della nostra “scienza sociale”, e rivelare, contrariamente a quanto insistentemente sostengono gli scienziati sociali, che gli esseri umani hanno ancora “la libertà di plasmare realtà sociali completamente nuove”».

Molti nativi americani al tempo di Kandiaronk possedevano ancora questa libertà, affermano. Le società europee, nel frattempo, erano incapaci di una vera autocritica. C’è voluto il saggio Urone per aprire gli occhi occidentali alla possibilità di una politica genuinamente rivoluzionaria. Ora Graeber e Wengrow stessi vogliono svolgere un ruolo simile.

Purtroppo, se il trattamento che riservano all’Illuminismo è indicativo, al fine di perseguire questo obiettivo sono disposti a impegnarsi in ciò che si avvicina pericolosamente alla negligenza accademica.

Non ho la competenza per giudicare gli argomenti di Graeber e Wengrow su questioni diverse dall’Illuminismo francese, ma la qualità del loro studio su questo argomento non fa ben sperare circa il resto del libro, a dir poco.

Il testo è stato pubblicato sulla testata online Persuasion. Traduzione di Monica Fava.

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