Livia ha una vita comune, come tante ragazzine della sua età. Ha una famiglia amorevole e delle amiche, è brava a scuola, nella corsa. C’è solo una cosa che di sé non le piace: deve sempre indossare gli occhiali, ha ereditato la miopia del nonno. Lei però non si piace con gli occhiali quindi, di nascosto, prima di andare al campo estivo ruba delle lenti a contatto, le porta con sé e le indossa. Ma le cose non vanno come previsto, e Livia viene visitata da un oculista, che trova un’ombra: retinite pigmentosa. Livia, pian piano, diventerà cieca.

Spilli, Einaudi 2023, è l’esordio di Greta Olivo, ed è un primo passo che segna quello che sarà, certamente, il lungo percorso di una scrittrice acuta e in grado d’infilarsi sotto la pelle dei lettori - come uno spillo, in effetti.

So che la cecità ha avuto un ruolo importante nella sua vita.

Mio nonno materno era cieco. Era una figura centrale per la famiglia, un uomo cupo e respingente che su di noi aveva un’influenza negativa, specie su me e mia madre. Nonostante questo, la famiglia gravitava attorno a lui.

Suo nonno aveva la retinite pigmentosa, come Livia?

No, divenne cieco in un altro modo. Da ragazzo aveva una grande miopia, per cui non poté essere arruolato, ma venne comunque arrestato e portato ai campi di lavoro dove uno degli uomini che stavano a capo gli diede un pugno, perse dunque un occhio, gli venne estratto chirurgicamente, e negli anni seguenti fu obbligato a sforzare molto l’altro, il che portò alla cecità.

Che ricordi ne ha?

Ricordo quest’uomo anziano, fermo seduto sulla sua poltrona, che dava ordini a chiunque – portatemi questo e fate questo. Fin da bambina ero critica rispetto al suo modo di essere, di comportarsi: mi chiedevo perché fossimo costretti a obbedirgli. Al tempo stesso però sentivo per lui una grande attrazione, legame che mi ha portata, crescendo, a metterlo al centro dei miei tentativi di scrittura; i temi alle medie e i racconti al liceo e gli esercizi alla scuola Holden: lui c’era sempre, era il mio protagonista.

Avevate un bel rapporto, quindi?

Macché. In famiglia vigeva il patriarcato e io ero la nipote femmina. Tuttalpiù mi chiedeva cosa mi piacesse, rispondevo che adoravo leggere e lui mi diceva che avrei fatto l’insegnante.

Dunque, questo legame che sentiva con lui che natura aveva?

Ho ereditato la sua grande miopia, qualcosa che mi ha fatto pensare, da bimba, che mi avesse tramandato anche il suo modo di stare al mondo. Per molti anni è stata la mia paura più grande, che mi avesse trasmesso quella sua negatività. Temevo di aver ereditato il suo buio interiore.

Però in Spilli non racconta suo nonno.

Volevo concentrarmi sull’adolescenza.

Perché?

Per me è un periodo di forti perdite. È stato in quegli anni, infatti, che mi sono scontrata per la prima volta con la realtà e con un concetto che poi, crescendo, ho dovuto affrontare ancora e ancora: rapporto tra limiti e desideri.

Me ne parla?

Limiti e desideri vanno di pari passo. L’ho sempre vista così, la mia esistenza finora è stata un continuo fare i conti con questo binomio: sentire dei desideri fortissimi, delle spinte impellenti, e avere, al tempo stesso, l’assoluta certezza di avere dei limiti per cui questi desideri non potranno mai essere soddisfatti. Desiderare qualcosa e credersi incapaci per dei confini di natura: è tremendo. Ed è qualcosa che spinge a chiederti perché sei nata desiderando qualcosa che non sarai capace di avere in quanto fatta male.

Lei si sente fatta male?

Per anni l’ho pensato.

La ragione?

Sono una persona estremamente ossessiva. E l’ossessività porta ad analizzare tutto: ogni scenario possibile, ogni dettaglio, ogni angolazione. Quando la vita stessa diventa continuo oggetto di analisi, si tende a concentrarsi sugli aspetti negativi non sui positivi, a sminuirsi senza posa. È molto stancante, in effetti.

Per lei funziona così?

Sì.

Anche per me, e capisco quanto sia difficile.

Lo è soprattutto perché, pian piano, si comincia ad avere una visione del reale molto alterata. Ci si vede peggio di quel che si è davvero, non ci si fida sia di sé stessi sia degli altri, si tende al catastrofismo. Ecco, io ho iniziato a vederla, pensarla così in adolescenza. E Livia, per certi versi, la vive allo stesso modo.

Che tipo di adolescente è stata, lei? Come la sua Livia?

No. Ero una ragazzina molto vivace, però poi d’un tratto ho fatto un salto che mi ha portata a chiudermi in me stessa. Sono stata un’adolescente timida, non ero capace di lanciarmi, sfidare il mondo e contravvenire alle regole.

Al liceo, ad esempio, durante l’intervallo non uscivo dall’aula, non parlavo con chi non conoscevo, ero convinta di esser sempre presa in giro, guardata male. Vedevo, su di me, delle caratteristiche fisiche tremende, mi sentivo una gigante, avevo i lineamenti sbagliati ed ero certa che mai avrei avuto un fidanzato.

Mentre le ragazze della mia età facevano le prime esperienze, io restavo nel mio angolo, ferma, ad aspettare chissà che. Mentre le altre sperimentavano la trasgressione come ogni adolescente, fumando le prime canne e andando alle prime feste e dando i primi baci, io non mi muovevo dal mio posto. Tant’è che poi ho pure sentito l’esigenza, verso i vent’anni, di recuperare quell’adolescenza mancata, ma non è andata granché bene.

Rimpiange di non essersi tuffata nella vita, in quegli anni?

Per certi versi, sì: sottrarsi alla vita è sempre un errore. A quel tempo però ero proprio incapace di andare oltre me stessa. Sentivo di vivere un’esistenza per cui non mi erano state date delle istruzioni, mentre alle altre sì.

E poi?

Non è che la situazione sia cambiata tanto, sicuramente i libri mi hanno aiutata e la letteratura ha funzionato da libretto d’istruzioni. Tra le pagine trovavo un conforto, un ordine che mi è molto servito.

Eppure Livia mette in atto delle piccole rivoluzioni; bacia Lorenzo, di cui si è invaghita, ruba le lenti a contatto da casa, per non mettere gli occhiali al campo estivo. Lei non le ha avute, le sue piccole rivoluzioni?

La mia rivoluzione è stata la scrittura. È stato un atto rivoluzionario verso me stessa, e verso il mio mondo. Affrontare la paralisi che può generare la pagina bianca e la parola, il timore di un’umiliazione di fronte i possibili editori: tutti questi passi, piccolissimi ma per me giganti, sono stati atti rivoluzionari.

«Fare finta di niente, a volte, è l’unico modo per stare vicino a qualcuno» scrive in Spilli. Intende dire che per incastrarci con chi abbiamo accanto dobbiamo necessariamente ignorarne alcune parti?

Intendo dire che spesso intraprendiamo delle relazioni quasi per necessità, per ricolmare un vuoto che abbiamo dentro e che non sopportiamo di sentire e per cui siamo costretti a trascurare certi pezzi dell’altro.

Nel caso di Livia e Daniele, suo amico, cui fa riferimento la frase?

Livia da Daniele si sente vista, in qualche modo lui convalida, dà prova della stessa esistenza di Livia nel mondo, cosa che per un’adolescente è importante.

Abbiamo parlato tanto del passato oggi, pure in riferimento alla scrittura e al suo percorso verso l’esordio. Le chiedo, dunque, ora si sente scrittrice o ancora fatica a farlo?

Non lo so proprio, mi sento autrice, ecco: autrice di un romanzo.

A settant’anni starà ancora scrivendo?

Spero di sì, certo! E spero anche di non essere una di quelle scrittrici che, nel tempo, ha perso contatto con il mondo: vorrei, piuttosto, rimanere sempre ben immersa nella vita, avere ancora la capacità di ascoltare ciò che mi circonda.

Olivo, la mia ultima domanda ha a che fare proprio con il futuro; la faccio a tutti, questa. Immagini di avere ottant’anni e che sia domenica mattina: cosa fa, dove si trova, con chi è?

Di certezze non ne ho. Posso dirle di nuovo quel che mi auguro per me stessa: di avere tanti amici con me, non voglio sperimentare la solitudine in vecchiaia e spero di avere ancora un bel gruppo di amici. Con loro, la domenica mattina, potrei far pranzo, a casa di uno di noi, raccontare qualcosa d’interessante che mi è capitato e ascoltare le loro storie. Semplicemente, vorrei avere loro.


Spilli (Einaudi 2023, pp. 216, euro 18,50) è il primo romanzo di Greta Olivo

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