«Sai cosa mi sembra l’Italia? Un tugurio i cui proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione». Lo dice Pier Paolo Pasolini in un’intervista ad Alberto Arbasino del 1963. L’anno in cui Dino Risi gira I mostri, Mario Monicelli I compagni, Steno (Stefano Vanzina) Totò diabolicus. Gassmann, Tognazzi, Mastroianni, Totò. La grande commedia all’italiana. Dei padri fondatori che scappavano dal neorealismo e raccontavano al cinema, con cattiveria, quel tugurio.

Il 15 ottobre esce il primo film diretto da Enrico Vanzina, Lockdown all’italiana. A 71 anni. Dopo averne scritti più di cento per il fratello Carlo, il padre Steno, Neri Parenti. Tra questi uno stracult come Febbre da cavallo, del padre, Le finte bionde, grande commedia del fratello, Fratelli d’Italia, molto comico di Parenti, e i suoi capolavori: Sapore di mare, Vacanze di Natale, Eccezzziunale…veramente.

Vive dalla nascita di pane e di cinema: oltre al padre regista, suoi amici dell’adolescenza sono Claudio e Marco Risi, figli di Dino. Fa buoni studi e non perde tempo. Ottiene il Baccalaureat francese al Lycée Chateaubriand di Roma nel 1966 e si laurea nel 1970 in Scienze politiche alla Sapienza di Roma. Nel 1972 il padre lo vuole al suo fianco come aiuto regista per le riprese di L’uccello migratore con Lando Buzzanca, Piedone a Hong Kong con Bud Spencer e La poliziotta con Mariangela Melato. Ma a Enrico non piace fare il regista e preferisce diventare il più prolifico sceneggiatore italiano della nostra epoca. Con allegria. Con leggerezza. Con sentimento. È capace di costruire solidi copioni comici su cui si fonderà per tanto tempo la dipendenza cinepanettonistica del nostro cinema.

È capace di rappresentare, vent’anni dopo, l’antropologia colorata di quel tugurio, gli anni Ottanta, che davvero si era comprato la televisione, anticipando gli anni del berlusconismo politico. Certo l’impresa è improba: alle spalle del cinema dei Vanzina c’è la commedia all’italiana, quella cattiva dei capolavori: Il sorpasso, La grande guerra, La guerra è finita, I mostri, Amici miei.

Il 5 ottobre Vanzina vince il premio alla carriera per la Satira di Forte dei Marmi. Premio storico e prestigioso. Questa la motivazione. L’Italia è più vanziniana del loro cinema. Eppure il cinema dei Vanzina, Carlo e Enrico, è il grado zero dell’indicibile, che svela il complesso culturale degli italiani: il pop. Impresa titanica, affrontata orgogliosamente.

In ogni loro film c’è una perla incartata da scoprire. Battute memorabili e tragiche: «Anche questo Natale ce lo siamo levati dalle palle», detto da padroni coatti che scartano i pacchi di Natale davanti a domestici filippini allibiti oppure «La verità è che invecchiare fa schifo», detto dalla bionda Mrs Robinson italiana Virna Lisi.

Capacità sociologica di descrivere gli infiniti anni Ottanta con un’esattezza antropologica che sfugge ai più. Ma c’è di più. Muore Carlo. Enrico scrive due libri belli, dolenti e flaianeschi, dedicati a Roma e al fratello. C’è ancora di più.

Durante il lockdown che abbiamo passato guardando i loro film, nei palinsesti ogni giorno uno diverso, (ma quanti ne hanno fatti?) Enrico, allo specchio, pensa e scrive un film, in cui debutta alla regia appena riesce a girarlo, Lockdown all’italiana.

Come quella commedia di cui Vanzina rivendica il diritto di esistenza. Esce il 15 e vince preventivamente un profetico Premio Satira.

Riceve il premio, davanti all’altro premiato, Christian De Sica, uno che, in una vita sola, compendia una storia del cinema postmoderno: da suo padre Vittorio, Cesare Zavattini e Roberto Rossellini fino a Carlo Verdone, Massimo Boldi e Jerry Calà. «Se manca l’amore – dice Vanzina – il cinema viene male. Non c’è più Carlo, non c’è più Manuel De Sica, non ci sono più i nostri padri. Siamo rimasti noi. Ogni cosa fatta nel cinema è già stata fatta da qualcuno. Meglio che da noi. Come hanno fatto i nostri padri. C’è sempre una Valeri, un De Sica, un Billy Wilder dietro di noi. Non dobbiamo essere presuntuosi»

Ora, dopo essere stato massacrato dalle anime belle sui social, non si scherza con la morte, davvero? perché no?, Vanzina ci racconta questa storia funebre.

«Quando mio padre è morto non avevamo una tomba disponibile a Roma. Lui era di Arona, sul lago Maggiore, ma essendo il regista di Un americano a Roma, Febbre da cavallo e tanti film romani, ci sembrava giusto seppelirlo qui. Non riusciamo a trovare la tomba al Verano, insisto tra la burocrazia tombale, ma non si trova, forse, c’è zio, c’è zia, la nonna e salta fuori la polacca, l’amante di zio che era entrata, no, non trovo il posto. Mi rivolgo allora a Giulio Andreotti che conosceva bene Steno. Ci penso io, mi rassicura. Dopo un mese mi manda un biglietto: la mafia del Verano è più forte del presidente del Consiglio. ’Sta tomba non saltava fuori. Succede allora, come al cinema, una cosa meravigliosa. Maria Mercader, la mamma di Christian, c’ha prestato la tomba, per un bel periodo, per due anni Steno e Vittorio sono stati vicini. Non si dimentica». Lockdown all’italiana, il film di Enrico Vanzina è su due coppie, una borghese, l’altra proletaria.

Intrecciano i loro destini in uno scambio di corna. I due “traditori” vengono cacciati di casa. Ma è l’8 Marzo del 2020. In tv il Premier Giuseppe Conte annuncia a reti unificate che ha fatto scattare il lockdown per problemi di Coronavirus.

Chiusi negozi, attività, alberghi. A ore. Nessuno può spostarsi da casa propria. I fedifraghi sono bloccati nelle case da dove erano stati buttati fuori. Per loro inizia una tragicomica convivenza. Durante la quale sono trattati, in chiave leggera e divertente, i passaggi quotidiani che hanno caratterizzato la vita di tutti.

Le mascherine, i guanti, le uscite per la spesa, le uscite in farmacia, la passeggiata con il cane, il jogging, le certificazioni, la voglia di mare, i terrazzi condominiali su cui cantare. La difficoltà di capire cosa fare. I decreti incomprensibili. Lo smart working da casa. Le call via Skype in giacca e mutande. La palestra e gli addominali in video. Il problema della crescita dei capelli per le donne.

È una commedia amara che tratta con rispetto e emozione il dramma che si vive fuori da quelle case. Le crisi di ansia, la paura del contagio e della morte, la dipendenza dai dati giornalieri. Le giornate lunghe. La triste malinconia per gli anziani.

Tutto questo è complicato dalla comica fatalità che ha lasciato unite due coppie scoppiate. Si massacreranno? Si ritroveranno? Diventeranno migliori o peggiori? Ai primi di maggio Vanzina, coraggioso, manda la sceneggiatura al più bravo e severo critico letterario italiano, Antonio D’Orrico del Corriere.

«Feydeau al tempo del Covid con finale da lotta di classe riveduta e scorretta. Un saggio sociologico travestito da commedia umoristica immersa in una vasca d’acido e cucito con un filo invisibile di malinconia esistenziale. Tutto molto cattivo e molto divertente. Ho riso da solo leggendo. Buon segno».

Il responso critico. Enrico Vanzina è un uomo gentile e ci regala le sue note di regia. Non mi pentirò di aver debuttato alla regia con questo piccolo film. Per una ragione molto semplice: è il legato preciso che mi hanno lasciato in eredità mio padre Steno e mio fratello Carlo. Lo è per una serie di motivi che riassumo brevemente.

È un film non presuntuoso. È un film molto “scritto”, come amavano loro, nella convinzione che un film è innanzitutto una sceneggiatura. Forse questo è il film più “scritto” di quelli che ho realizzato negli ultimi anni. È una vera commedia all’italiana.

Si tratta un argomento drammatico con leggerezza. È un film sulla realtà che ci circonda. È un film nel quale il regista si affida anima e corpo agli attori. Stimandoli e amandoli. È un film anche cattivo. Sì, è un film cattivo. I miei protagonisti sono dei “mostri”.

Mostri che si fanno amare ma sempre mostri rimangono. Non succede spesso nelle commedie recenti che parlano quasi tutte in maniera smielata di amore. Nel film, e poteva anche esserci, non si fa mai della pretestuosa satira politica sulla gestione del virus.

Mai una parola sul governo e su chi si è trovato davanti alla responsabilità enorme di gestire questa emergenza. Non è un film politico. È una commedia. Per affrontare la mia prima regia ho tenuto a mente due film: Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese e Carnage di Roman Polanski.

Li ho scelti perché hanno saputo raccontare, in maniera fantastica, una storia chiusa tra poche pareti. Ho scelto di fare pochi tagli perché, sia Carlo che Steno, hanno sempre pensato che, quando una coppia di bravi attori duetta, meglio restare “a due”, senza spezzare troppo con i primi piani. Ho girato il film in pochissimi giorni.

Come dire: mi sono adattato alla situazione difficile creata dal Covid anche nella realizzazione di un film. Di questo vado fiero. Si può fare un film vero senza troupe “monstre” e senza rimanere sul set per settimane e settimane. Il cinema, tutto sommato, è una cosa semplice. E io ho provato a essere semplice. Comunque andrà, non mi pentirò.

© Riproduzione riservata