Luigi e Alfredo sono fratelli. Il primo abita in Valsesia, il secondo in Canada. Il primo aspetta un figlio con Elisabetta, alla valle è legato in un modo per cui di abbandonarla non vuol saperne. Il secondo non vuol saperne di tornarci ma deve, per accompagnare il fratello dal notaio: morto il padre, la casa della loro infanzia dev’essere divisa – e Luigi, poi, comprerà la parte di Alfredo. Va tutto male però: è l’alcol, o è la rabbia, o è la sofferenza che serpeggia in profondità e che, ogni tanto, risale. È la Valsesia che sembra urlare di dolore. Nel nuovo romanzo di uno scrittore di culto come Paolo Cognetti, Giù nella valle, Einaudi.

Il suo ultimo romanzo ha in sé tantissimi riferimenti a Nebraska, l’album di Bruce Springsteen. Cognetti, perché?

Per molti anni ho desiderato tentare un’operazione letteraria che avesse a che fare con Nebraska, volevo portarlo nella letteratura - una cosa simile a quella fatta da Fabrizio De André in Non al denaro non all’amore né al cielo, che si ispira a Spoon River, di Edgar Lee Masters. Era un desiderio forte, tant’è che la stesura è durata poco.

È più lento, di solito?

Scrivo un paio di ore tutti i giorni e tendenzialmente la mattina - di più proprio non riesco. E quando va bene tiro fuori una pagina al giorno. Questo romanzo, invece, l’ho scritto a orari per me insoliti, stando al computer più ore al giorno.

Cos’è cambiato?

Per La felicità del lupo e Giù nella valle ho provato un piacere per la scrittura che non avevo mai sperimentato. Per me scrivere è sempre stato un processo doloroso - che voglio fare ma che mi costa fatica. Qualche anno fa è cambiato tutto, e oggi non solo mi diverto ma se per un giorno non scrivo sto male.

Avrà pure provato lo stesso piacere per la scrittura, però Giù nella valle è decisamente più duro, ferino, rabbioso.

È una storia buia, certo. Per questo fa il paio con la precedente.

A proposito. I protagonisti di Giù nella valle sono Luigi ed Elisabetta e in La felicità del lupo c’erano due personaggi secondari, Santorso e Babette. Luigi ed Elisabetta sono Santorso e Babette da giovani?

Sì, sono loro due. Ho deciso di riprenderli perché sentivo che mi erano rimasti incastrati dentro, a me e pure ai miei lettori - incontrandoli, me l’hanno detto spesso, in tanti.

Torniamo a Nebraska di Springsteen. Ricorda la prima volta che l’ha sentito?

Come no, avevo quattordici anni. All’epoca condividevo la cameretta con mia sorella diciottenne, che aveva uno stereo e delle cassette. Io invece ero ancora troppo piccolo per possederne di mie, e così ascoltavo le sue e un giorno, dopo aver scoperto De Gregori e Dalla, misi su Nebraska.

Reazione?

Pensai cazzo! Ne rimasi folgorato.

Nebraska si rifà alla storia di Charles Starkweather, killer che, negli anni Cinquanta, uccise undici persone assieme alla fidanzata, quattordicenne, Caril Ann Fugate. Giù nella valle comincia con due cani randagi, maschio e femmina, che si aggirano per i boschi uccidendo gli altri animali.

I cani del romanzo sono gli adolescenti della vicenda - Starkweather e Fugate. Questo, però, non è solo un atto d’amore per l’album di Springsteen, ma pure una dichiarazione di appartenenza alla letteratura e al cinema statunitense. La storia di quei due adolescenti non ha prodotto, infatti, solo Nebraska ma anche La rabbia giovane, il film di Terrence Malick: volevo che questo romanzo si inserisse nel filone di opere che raccontano la storia di quegli omicidi.

Perché proprio i cani?

Perché ho potuto osservare con attenzione Lucky. È con me da dieci anni, non ci separiamo mai, lo porto con me ovunque, qualsiasi cosa faccia, e l’ho anche un po’ studiato, negli anni, inevitabile, per cui conosco i suoi comportamenti.

Parliamo di Luigi e Alfredo, ora - i fratelli protagonisti del suo romanzo. Lei, all’inizio, li associa a due alberi: il larice e l’abete. Perché?

Sono fratelli pure loro: abitano alla stessa altitudine, vivono nelle stesse condizioni, affrontano le stesse sfide, hanno le stesse difficoltà. Eppure, anche loro, sono diversissimi.

La differenza più grande tra Luigi e Alfredo?

Il modo che ciascuno ha di cercare la felicità - ma credo valga un po’ per tutti.

C’è molto racconto biblico, nel romanzo.

Perché ce n’è tantissimo in Springsteen. Il peccato, il senso di colpa, la figura del padre e la sua casa.

In Le otto montagne c’è la morte di un padre, e una casa da ristrutturare. Qui torna la morte del padre, ma la casa è da dividere: uno dei due la vuole per sé, l’altro vuole liberarsene.

Ho scritto tante cose di cui mi ero già occupato in Le otto montagne, ma senza volerlo. Torna la casa, tornano pure due uomini che hanno avuto una relazione con la stessa donna. Pietro e Bruno erano stati entrambi con Lara, qui i fratelli sono stati con Elisabetta, anni prima l’uno e poi l’altro.

Come mai?

La mia ragazza è l’ex di uno dei miei migliori amici, probabilmente per questo - il cervello funziona in modo strano.

In un’intervista ha detto che Elisabetta le somiglia.

Lei ha fatto un percorso parallelo al mio, per certi aspetti. Da una grande città, Milano, alla montagna. Lei, così gentile, dolce, deve adattarsi e andare avanti, resistere tra uomini cupi, in un posto durissimo.

Lei, Cognetti, dopo tutti questi anni in montagna non si è irrobustito?

No. Ho preso tanti ceffoni, in questi quindici anni, ma nonostante tutto sento di essere lo stesso ragazzo gentile, fragile, troppo delicato di allora.

Non è più simile agli abitanti dei luoghi che racconta, oggi?

No. E lo so perché la mia morbidezza viene fuori ancora spesso: in questi anni ho pianto più volte, ho rischiato le botte (ma senza mai buscarle, per fortuna), ho litigato con i miei migliori amici per futili motivi, soffrendoci tanto.

Futili motivi?

Ubriachezza, orgoglio, incomprensioni. Le solite cose.

In montagna, quindi, si sente lo straniero - come Elisabetta?

C’è stato un momento d’integrazione, e in cui mi sono sentito parte di loro. È successo quando ho lavorato lì come cuoco: non ero più il ragazzo strano della baita che si diceva facesse lo scrittore.

Poi?

Sono diventato “lo scrittore di successo”, e oggi non mi considerano più parte della comunità.

Nonostante lei scriva della montagna?

Da una parte mi sono grati, racconto il loro mondo in un modo che avvertono sincero - nei libri si sono riconosciuti, tant’è che mi hanno fatto i complimenti: bravo, hai raccontato come viviamo qui. Mi sono pure grati perché prima con il libro e poi con il film ho portato molto turismo, vengono da Polonia, Belgio, Olanda per vedere i posti di Le otto montagne. Dall’altra parte, però, rimango lo scrittore di fuori, il forestiero.

È pieno di rabbia, Giù nella valle. Una rabbia rude, animale. Lei la sente, questa rabbia? Ce l’ha dentro?

Scrivendo questo romanzo ero certamente in un periodo di grandi rabbie. Per quel che stiamo facendo alla terra, per quel che ci stiamo facendo l’un l’altro. Mi sento molto angosciato, quindi arrabbiato. Ed è un sentimento comune, mi rendo conto: a essere arrabbiati siamo in tanti.

La sua valvola di sfogo?

La scrittura. Ho tirato di boxe per un anno - sa, per via di Hemingway -, forse, pensavo, mi avrebbe aiutato a sfogare un po’ di questa angoscia. Quando, poi, mi hanno messo per la prima volta su un ring, per un incontro vero e proprio, un tipo, alto e grosso la metà di me, me ne ha data una caterva. Fine della mia carriera da boxeur. È con i miei libri che picchio.

I suoi personaggi bevono parecchio.

Tra le Alpi l’alcolismo è molto diffuso, e poi bere, stordirsi a quel modo, ti fa soffrire meno la solitudine - che lassù può essere forte.

Avevo intenzione di chiederglielo: che solitudine è quella del romanzo?

Molto dura. La prima volta che sono salito ad aprile, periodo in cui di persone lassù ce ne sono poche, ho trascorso una settimana senza incontrare nessuno. Non un viso: un’esperienza estrema.

Cognetti, questa mia ultima domanda la faccio a tutti. Immagini di avere ottant’anni, che sia domenica mattina: dove si trova, cosa sta facendo?

Sto scrivendo, ne sono certo. Non so immaginare la mia vita senza la scrittura.

Sarà in montagna o in città?

Se è estate sarò su, se è inverno sarò giù.

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