A proposito di Sanremo, nostra ossessione recente: al Festival del 1981 invitano Massimo Troisi per il lancio del suo primo film, Ricomincio da tre. È una tribuna strategica, chi non lo sa? Nelle rituali interviste televisive prima della serata gli chiedono cosa dirà. «Mi hanno detto che non posso parlare di politica, di religione, di operai e di terremoto. Sono indeciso tra una poesia di Pascoli o di Carducci».

Il suo nome resta nei titoli della serata, ma Troisi non c’è: ha rifiutato di consegnare il testo del suo intervento in anticipo. Avrebbe compiuto 70 anni il 19 febbraio, Troisi, e Laggiù qualcuno mi ama, il documentario di Mario Martone presentato alla Berlinale e in sala dal 23 febbraio, è un’avventura nel segno della passione e dell’intelligenza.

È un’avventura perché scava nei pertugi delle cose che non si sanno, neanche i più ganzi di noi. È un’avventura perché con Jacopo Quadri lo ha montato Martone stesso. È un’avventura perché se hai visto tutti i film di Troisi, e magari l’hai anche incontrato a ripetizione, non ti ha mai sfiorato la curiosità per quel nome, Anna Pavignano, che con lui ha firmato tutte le sceneggiature.

Anna Pavignano

Martone riparte da Pavignano (che firma con lui la sceneggiatura) esattamente come il suo oggetto di indagine si rifiutava di ripartire da zero: «Tre cose me so’ riuscite dint’a vita, pecché aggi’a perdere pure chelle?»

Inizialmente compagna di Troisi, Pavignano non ha mai smesso di lavorare con lui. È lei la depositaria di un tesoro da Captain Flint, un’agenda-diario emozionante e i “foglietti”, spunti e battute che il Nostro annotava in corsa  per sfruttarli nei film, un po’ come i taccuini di F. S. Fitzgerald per i romanzi.

Ed è, lei torinese, col bagaglio di movimento, di libri, di femminismo anni ‘70, l’interfaccia e lo stimolo per il ragazzo cresciuto a San Giorgio a Cremano, ribelle a stereotipi e convenzioni sulla Napoli da cartolina. Il fenomeno Troisi ha riempito le sale, c’erano schiere di spettatori in piedi. Per Martone è quasi il nostro Truffaut. 

Troisi è la nostra Nouvelle Vague?

Mario Martone ha conosciuto tardi Massimo Troisi, a Montpellier, nel 1992, dove portava il suo Morte di un matematico napoletano. Ma da autore ha la capacità di vedere, al di là del comico, un grande regista, libero e sottostimato. Coglie la svolta di linguaggio, stile e recitazione, l’analogia di certe corse a perdifiato che ricordano Jules et Jim, la dissonante coerenza di un alter ego che si evolve come il Jean Pierre Léaud-Antoine Doinel di Truffaut a partire da I quattrocento colpi.

Il profilo di Troisi è molto più interessante e complesso di quello offerto da un altro documentario d’occasione appena uscito, Il mio amico Massimo di Alessandro Bencivenga. E le voci che sceglie Martone non sono scontate: estimatori ante litteram come Goffredo Fofi, autori che ha affascinato e influenzato, come Paolo Sorrentino e lo sceneggiatore Francesco Piccolo.

È gente folgorata dalla sovversiva fragilità del suo personaggio di elezione, dalla sua disarmante incapacità di stare al mondo: l’opposto del Maschio imperante nel nostro cinema fino ad allora. Il cinema “che ha la forma della vita” da noi è una rivoluzione. Ad accomunare Martone e Troisi c’è anche la matrice teatrale. Il capitolo di San Giorgio a Cremano del documentario serve a valorizzare la carica politica di Troisi, poco compresa finora.

Il primo testo messo in scena dalla compagnia dilettante che precede La Smorfia (il trio rivelazione con Enzo Decaro e Lello Arena) parla di aborto, ragazze madri e operai. Per questo viene sfrattato dalla sala parrocchiale e nasce il Centro teatro spazio.

Troisi, racconta Pavignano, ha impiegato dieci anni per ottenere il diploma di geometra, ha ripetuto tutte le classi, ma a scuola promuoveva azioni politiche anticonvenzionali. L’iconico Annunciazione Annunciazione!, con l’aureola di Decaro e Arena fatta coi retini da farfalle e Troisi-Vergine Maria, viene denunciato (ma poi anche assolto) per vilipendio alla religione.

«Erano anni in cui si pensava sempre politicamente, anche quando si faceva teatro», commenta Martone fuori campo. Troisi annota: «Mi piacerebbe partecipare alla vita sociale e politica come fa Pasolini, invece la mia parte chiusa si nega».

Tra Pino Daniele, Charlie Chaplin e Benigni

Dietro la simbiosi artistica e umana con Pino Daniele c’è tutta la Napoli ribollente di quegli anni, le strade e le piazze imbandierate, inserti filmati che dicono molto sull’orizzonte sociale e personale dei due, che condividono anche un cuore traditore.

La musica di Pino è inseparabile dalle immagini di Massimo come quella di Nino Rota da Fellini. È l’opposto di un’agiografia, è il termometro della diversa impronta che Troisi ha lasciato sul lavoro di tanti.

Quando Ficarra e Picone argomentano le affinità dell’uomo e del regista con l’anima di Charlie Chaplin sullo schermo scorre una sequenza di City Lights. È bello che a ogni intervistato venga data licenza di scegliere i suoi frammenti del cuore, magari con le risate che sfuggono incontrollate ai protagonisti.

L’incontro con Roberto Benigni è magia, secondo Giuseppe Bertolucci, sceneggiatore con la coppia di Non ci resta che piangere: «Si amavano molto e hanno cercato di costruire una reazione chimica tra i loro due personaggi». C’è un esilarante spezzone di intervista in cui Benigni spiega il compromesso tra la sua comicità contadina e la comicità piccolo-borghese di Troisi: «Il  risultato è una comicità piccolo-contadina».

Allergico agli stereotipi

Troisi ha demolito, con i suoi dubbi distillati nel tempo, ogni certezza sull’amore eterno e salvifico. E ha dato una bella spallata all’idea di famiglia tradizionale. «Un uomo e una donna sono le persone meno adatte a sposarsi», sosteneva in Credevo fosse amore, invece era un calesse, la sua ultima regia.

Chi non ricorda lo sproloquio  irresistibile sul nome del nascituro forse non suo, l’alternativa tra Massimiliano, destinato a crescere «scostumato» per via della lunghezza, e l’imperativo, castrante Ugo?

Ha combattuto contro gli stereotipi del napoletano emigrante e contro una Napoli congelata nella falsa allegrezza, nell’istrionismo forzato, in un passato da iconografia conservatrice. Eppure per Ettore Scola, un altro dei suoi incontri di affinità elettive, ha impersonato magnificamente anche il Pulcinella della tradizione.

Avevo dimenticato che per Che ora è, partner di Marcello Mastroianni, ha vinto a Venezia la Coppa Volpi. È un umorismo schivo il suo, fatto di understatement, quando contesta nelle interviste i critici paludati che gli rimproverano l’assenza di Napoli in certi film, come Le via del Signore sono infinite, come se il luogo di nascita gli affibbiasse una mission da sociologo.

Smantella la cartolina partenopea da pizza e spaghetti a colpi di aneddoti: tipo suo padre che mangia gnocchi di nascosto, da carbonaro, terrorizzato di farsi sorprendere a trasgredire. Un solo, microscopico appunto muovo a Martone. Non ci ricorda che nel finale de Il Postino, affidato per suprema modestia alla regia di Michael Radford ma roba sua dall’inizio alla fine, cambiando il finale del libro di Antonio Skàrmeta Massimo fa morire il suo Mario a Roma, negli scontri di Porta San Paolo del 1960, la grande rivolta contro il governo Tambroni sostenuto dai fascisti del Msi.

Ho chiesto in giro: è un dettaglio politico rimosso. Ricordo bene quel giorno del 1994, alla Mostra del cinema di Venezia. C’era da piangere un geniale ragazzo di quarantun anni morto tre mesi prima alla viglia della partenza per gli Usa, verso un trapianto di cuore troppo tardivo, ma ho vissuto quel dettaglio come una folgorazione.

C’è un rigo di Fabrizio De Andrè, tratto da Un Malato di cuore, che rimbalza virgolettato dai tanti “foglietti” di Troisi. Dice: «Eppure un sorriso io l’ho regalato». Per questo documentario, poteva essere un titolo anche più emozionante.

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