Ken Loach lo fa per antica consuetudine. Le sue storie sono popolate di gente vera, membri della comunità, lavoratori, bambini e casalinghe dei microcosmi che racconta. Distinguere i non-professionisti dagli attori veri è una bella sfida. Nel suo ultimo film, The Old Oak, a ricostruire una vicenda del 2016 in un paesino della Contea di Durham erano soprattutto quelli che l’avevano vissuta. Un non-attore era addirittura il protagonista Dave Turner, sindacalista nella vita reale chiamato a interpretare il proprietario del pub, TJ Ballantine.

La sorpresa più intrigante di Un mondo a parte, quinta tappa della simbiosi in progress tra Riccardo Milani regista e Antonio Albanese interprete, in sala con Medusa dal 28 marzo, arriva sui titoli di coda. Scopri che le figurine della finzione hanno un nome, un mestiere e un’appartenenza: Duilio Antonucci, agricoltore di Pescasseroli, Tiziano Gentile, operaio edile di Pescasseroli, Franca Di Cicco, commerciante di Avezzano. È un fiume: quarantasette nomi di persone reali valorizzate nei crediti alla pari dei protagonisti. Chissà se Loach ruberà a Milani l’idea, è un vero valore aggiunto. Che non sia una trovatina demagogica lo dice la natura stessa del film, commedia sociale secondo il brand di un autore di pochi fronzoli e ostinata semplicità. La coralità qui è un dato geografico e umano, un copione usato come megafono per una comunità minuscola con le emergenze tristemente note ai dimenticati territori extrametropolitani (non solo italiani, e l’operazione di Milani ha il potenziale di un format glocal che può fare scuola) in via di spopolamento.

Salvare il mondo, prima di cena

L’emergenza di Un mondo a parte è la scuola. Non è l’emergenza di Pescasseroli, location sentimentale del film insieme ad altri piccoli centri montani nel cuore del parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Qui stanno davvero battendosi in questi giorni per difendere il presidio sanitario locale. È però l’emergenza di Rupe, grappolo di case di fantasia (378 anime, il vero paese è Opi) in cui il maestro Michele Cortese (Albanese) ottiene di farsi trasferire per sfuggire a decenni di frustrazione nella periferica giungla romana. È imbottito di sogni e ideali green, ha letto Jonathan Safran Foer, solo in un posto così, pensa, «possiamo salvare il mondo prima di cena». L’apprendistato traumatico in puro stile Benvenuti al Sud ovviamente gli rovescia la prospettiva e lo costringe ad «acconciarsi», per dirla in lingua marsicana. Perché la sua unica classe di sette alunni, dalla prima alla quinta elementare, a fine anno rischia la soppressione per mancanza del numero legale.

Michele archivia la letteratura e impara a cambiare almeno uno scampolo di realtà. Perché un paese muore, senza la scuola. E una scuola aperta, secondo il regista, «salva la comunità». Le rovine diroccate di Sperone, vero villaggio fantasma che è il monito incombente dei rupesi, sono là a ricordarlo. Il sindaco della vicina Castelromito, affamato di incassi turistici e centri commerciali, trama per annettersi anche gli scolari di Rupe. Se c’è da combattere, tutti i mezzi sono buoni, anche i meno ortodossi.

La squadra che si mobilita è capitanata dalla rocciosa vicepreside Agnese (Virginia Raffaele), una che spiega, in puro spirito Milani, che «con 1.400 euro al mese siamo noi, gli insegnanti, la nuova classe operaia». L’intero film è ovviamente un tributo alla categoria, largamente ispirato da storie vere, dagli insegnanti precari locali che fanno centocinquanta chilometri al giorno con neve, ghiaccio e bufera, escono e tornano col buio. E anche qui spuntano nomi e cognomi. Ma è anche un tributo alla restanza cara all’antropologo Vito Teti, vale a dire il diritto di restare che corrisponde al diritto di migrare. Storie vere di restanza: il giovane contadino Duilio Antonucci, che vediamo nel film, a quattordici anni al posto del motorino volle in regalo una pecora. Aveva già idee chiarissime sul proprio futuro.

La “resistenza culturale”

Lo sviluppo di pura fiction escogitato da Milani e dal suo cosceneggiatore Michele Astori prevede a questo punto l’impiego strategico dei rifugiati ucraini, guarda caso all’ordine delle cronache. Sono espedienti che qualche minuscolo borgo ha davvero ingegnosamente sperimentato in passato: «Resistenza culturale», la chiama il regista. Servono quattro bambini da reclutare d’urgenza? A suon di benefits si convincono a traslocare tre famiglie ucraine e una famiglia nordafricana insediata nella Valle del Fucino. È un complotto a fin di bene ma spregiudicato, che se ne infischia – anche rischiosamente – del politicamente corretto. Dato che la disabilità fa punteggio e richiede un insegnante di sostegno, un ragazzino dovrà incaricarsi di «fare lo scemo».

Una location sentimentale

Riccardo Milani e sua moglie Paola Cortellesi da molti anni sono di casa a Pescasseroli, hanno anche preso la residenza. L’insolita strategia di lancio di Medusa, preceduta e seguita da un tour a tappeto nelle scuole fuori dai radar in tandem con “Alice nelle città”, per due giorni ha coinvolto e mobilitato l’intero paese. Anche perché il film non è solo militanza comunitaria, riscatta le poche glorie regionali oscure o colpevolmente dimenticate.

La scuola immaginaria di Rupe è intitolata al poeta pastore Cesidio Gentile, detto Jurico, evocato in finale per raccontare come a otto anni andò a badare alle pecore imparando a leggere e a scrivere da solo, perché la scuola pubblica non esisteva. E con lui arriva anche Ivan Graziani con la sua tenera hit Agnese dolce Agnese, che spiega il nome della vicepreside Virginia Raffaele. È un mondo così a parte che «non sa vendersi», dice Agnese.

A ospitare la première del film è stato il cinema Ettore Scola, centosessanta posti difesi a forza di volontariato. Perché Scola, con i compagni di lavoro Age e Scarpelli, è stato tra i primi coloni fissi di Pescasseroli, nei lontani ’60, trainando nell’Alto Sangro un seguito di intellettuali, non ultima Dacia Maraini. Non c’è bisogno di aggiungere che col suo corredo di lupi, cervi e orsi solitari il Parco mette a disposizione della regia la più classica metafora di libertà.

La democrazia secondo John Dewey

Mi permetto un doppio salto mortale che la materia del film suggerisce. Ringrazio Luciano Canfora per una folgorante citazione di John Dewey: «La democrazia c’è se funziona l’educazione di massa». Ovvero: se le scuole deperiscono, automaticamente la democrazia deperisce. È un bonus che aggiungo magari surrettiziamente. Ma Un mondo a parte insiste parecchio sul fatto che «il primo nemico da combattere è la rassegnazione».

«Ci siamo abituati a perdere una cosa dopo l’altra, ci siamo abituati al peggio – cito alla lettera – che è la cosa peggiore per un essere umano». Il cinema non ha mai smesso di occuparsi di allievi e insegnanti, il tedesco La sala professori era nelle cinquine degli Oscar e lo stesso Milani ha esordito come regista adattando Domenico Starnone per Auguri, professore!

La scuola è davvero nei piccoli centri «come un pronto soccorso», un epicentro della comunità. Ma è anche l’unico salvagente per il futuro. Dewey l’aveva capito un secolo fa. È la volontà di educare tutti, senza lasciare indietro nessuno, a decidere la sorte delle democrazie as we know them.

© Riproduzione riservata