La recente scomparsa di Oliviero Toscani e Marco Romano richiama l’ormai lontano 1996 e la serie di circostanze che segnarono la creazione di una nuova scuola di architettura. Fin dalla fondazione, l’Accademia di architettura di Mendrisio si è preoccupata di creare figure in grado di reggere un impegno globale, spostando gli obiettivi professionali dall’edificio al territorio. L’architettura è il segno fisico della speranza. Senza rischio, non esiste
La recente scomparsa del fotografo Oliviero Toscani e dell’urbanista Marco Romano – già professori alla nuova Accademia di architettura a Mendrisio accanto ad altri studiosi della cultura urbana italiana, mi ha richiamato alla mente l’ormai lontano 1996 e la serie di circostanze – caparbiamente cercate, ma forse irripetibili – che hanno segnato l’inizio di un’avventura che ha connotato una continuità storico-culturale per la formazione degli architetti alla fine del XX secolo attraverso la creazione di una nuova scuola di architettura.
Fin dalla sua fondazione, gli obiettivi dell’Accademia di architettura di Mendrisio sono stati quelli di mettere a disposizione un curriculum di studi di chiara impronta umanistica, che aiutasse a individuare i problemi piuttosto che a trovare soluzioni.
Quindi, accanto all’insegnamento tradizionale, si è ricorso a personalità provenienti dai più disparati ambiti: design, grafica, fotografia, filosofia, storia dell’arte, matematica, ecologia e antropologia. Basti scorrere i prestigiosi nomi di questi operatori, Achille Castiglioni, Franco Sbarro, Carlo Bertelli, Eladio Dieste, Clorindo Testa, Francesco Dal Cò, Harald Szeemann, Leonardo Benevolo, Sergio Albeverio, Albert Jacquard, Peter Zumthor, i primi a partecipare a quella che in molti avevano interpretato come un’utopia, ma che nel corso degli anni si è rivelata una solida realtà che fa parte dell’identità di questo nostro territorio. Anche le scuole sono uno specchio del Paese: i luoghi che oggi si definiscono di eccellenza sono l’espressione di una collettività, di un prestigio, di un valore politico, di un orientamento etico e di una memoria di una società, e il loro successo si misura nel tempo. Tempo che sembra averci dato ragione, pur nelle mille contraddizioni che stiamo vivendo.
L’impegno globale
I processi di globalizzazione, gli stravolgimenti sociali, la pandemia che ha paralizzato il mondo nel 2020, le guerre alle porte della vecchia Europa, la carenza di fonti di approvvigionamento rappresentano scenari inquietanti con i quali gli architetti sono chiamati a convivere e che hanno modificato uno dei fondamentali dell’architettura, ossia l’organizzazione dello spazio di vita dell’uomo.
L’indirizzo pionieristico dell’Accademia si preoccupa di creare una figura di architetto che sappia ricollegarsi, aggiornandola alle esigenze attuali, alla visione umanistica propria dell’area mediterranea.
Il curriculum di studi fa esplicito riferimento alla figura di un “architetto territoriale”, per indicare un impegno globale e spostare i tradizionali obiettivi professionali dal progetto dell’edificio al territorio, dalla casa alla città. Farsi carico di una progettazione che va oltre la singola costruzione, significa occuparsi degli spazi di relazione che l’architettura crea con il contesto, ed è questo il compito sul quale l’Accademia vuole insistere.
La rapidità delle trasformazioni in atto si è trasformata in complessità del vivere, in frontiere sempre più labili e illusorie. Comunque, non tutto il male viene per nuocere, perché nel disagio prodotto da queste incertezze si intravvede una maggiore consapevolezza etica ed ecologica.
Il futuro che vuole durare
Solo grazie a una costante riflessione critica di fronte alle sfaccettature sempre più ingannevoli di una società, giustamente definita da Bauman “liquida”, è ancora possibile recuperare i rapporti con gli altri uomini e con il contesto.
L’architettura è espressione formale della storia, segno fisico delle speranze (talvolta anche delle illusioni) che la collettività elabora lungo l’arco della sua vita. È un’attività che agisce negli anni con l’obiettivo di disegnare un futuro che vuole durare. Quella del costruire è inevitabilmente una condizione che trasforma l’attuale equilibrio in uno nuovo; è in questa metamorfosi che risiede la finalità di ogni atto creativo. Non possiamo dimenticare che il primo gesto del fare architettura non è quello di mettere pietra su pietra ma quello di mettere pietra su suolo e quindi di trasformare – di violare – una condizione di natura in una di cultura. Avere la consapevolezza di questo principio elementare aiuterebbe a fare piazza pulita di molti stereotipi e a ridimensionare molte iniziative che si nascondono dietro un'apparente attività di salvaguardia mentre, in realtà, celano un atteggiamento di «reazione» e paura nei confronti del nuovo, dell'inedito, dello sconosciuto, del rischio. Ma senza rischio l'architettura non esiste.
La finalità sociale dell’Accademia
Si tratta quindi di un processo continuo dove gli spazi dell’uomo vengono via via modificati nel tempo per rispondere alla sensibilità dei differenti periodi storici.
La finalità sociale dell’architettura è uno dei caratteri fondativi dell’Accademia di architettura di Mendrisio. Il primato riconosciuto alla dimensione etica e pubblica dell’architettura informa così una complessiva filosofia didattica in cui le problematiche sollevate dalle scienze umane stimolano negli studenti la ricerca progettuale degli elementi identitari che conferiscono qualità al paesaggio e alla città, soprattutto quella europea.
La città europea è un organismo che vive di stratificazioni storiche, è stata costruita nel tempo con accorti concetti di centro, di limite, di zone a densa edificazione alternate a pause naturalistiche e spazi pubblici. Questa preziosa eredità viene però sempre più compromessa dal degrado della città diffusa e dalla mediocrità invasiva dei manufatti globalizzati, tanto che diventa urgente riproporre il “territorio della memoria” come base per formare nuovi architetti che si possano definire “costruttori di identità”.
Un incrocio di discipline
L'architettura va difesa come cultura interdisciplinare che si occupa della organizzazione dello spazio di vita, perché al di fuori di essa prendono inevitabilmente il sopravvento i singoli saperi settoriali, siano essi tecnici, ingegneristici, scientifici, organizzativi e persino estetici. E se lasciamo che la logica della spartizione delle competenze abbia la meglio, questi saperi indispensabili si trasformeranno in precetti che riducono il progetto a un collage di soluzioni, con risultati d'insieme sconfortanti. Come è ben visibile nelle degenerazioni mostrate da molti grandi studi anglo-americani o da altri recenti cresciuti nell’estremo oriente, l'architetto è a volte teso ai singoli "diktat" spinto a recitare la parodia di se stesso, a diventare un "manager" del tutto sottomesso ai singoli diktat, un ottimizzatore del processo produttivo, lusingato da un mandato apparentemente "artistico" (di art director) che lo confina di fatto in un ruolo di decoratore per compiti marginali.
Per evitare che l'architettura finisca relegata a un destino di servizio tecnico da un lato o di intrattenimento estetico dall'altro, si rende necessario un continuo ripensamento del processo progettuale che conduca a rafforzare la figura di un operatore “totale”.
Se vuole sussistere come arte, l'architettura non deve dunque rinunciare ad arricchire con una propria poetica i contributi tecnici e i programmi operativi.
Andare oltre
Il suo generalismo creativo si gioca infatti su un'estensione culturale del progetto oltre i limiti delle conoscenze specialistiche e le strette risposte funzionali. Ed è questo "andare oltre" che sollecita l'architetto a sperimentare in modo innovativo altri modelli di vita.
Allora la poetica cesserà di essere un'elegante decorazione aggiunta all'affidabilità del progettista e diventerà strutturale per una strategia di difesa professionale in grado di migliorare la qualità degli spazi di vita dell’uomo. La necessità di un ruolo poetico è appunto figlia di una figura generalista, forse la sola in grado di affrontare i paradossi più inquietanti del mondo odierno, dove i processi di modernizzazione tecnica conducono spesso, anziché ad un progresso civile, a forme di degrado sociale.
Quando nasceva a Mendrisio l'Accademia di architettura, alcune di queste considerazioni erano forse solo felici intuizioni di scenari che sono poi cresciuti esponenzialmente negli ultimi decenni. Oggi, che il progetto intellettuale, pedagogico e professionale intrapreso ha trovato una propria ragione storica di grande attualità – una generazione di quasi 3000 architetti provenienti da 60 paesi e riuniti nell’associazione culturale AMA-Accademia Mendrisio Alumni – porteranno a loro volta un patrimonio umanistico, generalista e interdisciplinare, in tutto il mondo.
Il testo è parte della raccolta “L’architettura territoriale” a cura di AMA-Accademia Mendriso Alumni.
AMA-Accademia Mendrisio Alumni è un’associazione culturale che riunisce gli oltre 2800 architetti laureati all’USI-Accademia di architettura di Mendrisio e provenienti da 60 paesi nel mondo. Motore di idee e scambi interdisciplinari organizza installazioni, conferenze ed esposizioni realizzando progetti in collaborazione con istituzioni internazionali pubbliche e private.
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