Sullo sfondo del conflitto tra palestinesi e israeliani, ma più in generale nella storia della regione segnata da conflitti, un ruolo simbolico importante rivestono le scritture sacre ebraiche e cristiane (in misura minore quelle musulmane). Al centro sono infatti le vicende e il destino di Gerusalemme, città e centro ideale della «terra di Israele» – Erétz Yisraél, l’antica Canaan – che nel racconto della Genesi fu promessa da Dio ad Abramo ed è da secoli contesa.

Molte volte conquistata, oggetto di distruzioni e saccheggi, svuotata dei suoi abitanti costretti all’esilio, l’antica capitale ebraica ispira testi biblici e apocrifi, soprattutto profetici e apocalittici, che trasformano vicende storiche di oppressioni nelle visioni terribili – ma anche consolanti – della fine dei tempi. «Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra» (cioè si paralizzi) ricorda un esule «lungo i fiumi di Babilonia» in uno dei quindici salmi detti «delle salite» perché erano ripetuti dai pellegrini mentre salivano al tempio costruito da Salomone.

Secoli più tardi, sotto la dominazione dei pagani, alla fine del delizioso piccolo libro di Tobia – popolarissimo tra ebrei e cristiani, che figura tra i testi biblici di Qumran ma è apocrifo nella tradizione ebraica – un poemetto sulla «città santa» maledice «tutti quelli che ti distruggono, che demoliscono le tue mura, rovinano le tue torri e incendiano le tue abitazioni». E si conclude con una preghiera d’incoraggiamento: «Anima mia, benedici il Signore, il grande re, perché Gerusalemme sarà ricostruita come città della sua dimora per sempre».

Gli stessi accenti e la proiezione nel futuro, presenti in diversi profeti, si ritrovano nei libri apocrifi e sono ripresi alla fine del I secolo da uno dei testi più visionari ed enigmatici di tutta la Bibbia, l’Apocalisse. Alla fine del libro attribuito all’apostolo Giovanni, radicato nella letteratura apocalittica ebraica, Gerusalemme scende dal cielo e non ha più bisogno né di sole né di luna perché «la gloria di Dio la illuminò e la sua lucerna è l’agnello», cioè Cristo.

Ma già decenni prima, intorno all’anno 55, Paolo, il protagonista del precoce e complicato allontanamento dalla matrice ebraica, nella lettera ai Galati contrappone alla «Gerusalemme attuale», soggetta alla legge, quella «di lassù», libera. Due anni più tardi, nel 57, si prepara al viaggio decisivo fino a Roma e scrive la sua lettera più importante, quella ai cristiani che vivono nella capitale dell’impero, che l’apostolo ancora non conosce e dove da due secoli era insediata una importante comunità ebraica.

E proprio nella lettera ai Romani la riflessione di Paolo approfondisce «la sua visione del processo di una salvezza universale che ha per nodo la necessaria riconciliazione d’Israele e delle nazioni», cioè i pagani, come sintetizza a margine della sua traduzione in francese il biblista ebreo André Chouraqui. «Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’ostinazione di una parte d’Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato» (11,25-26) dice Paolo.

Una summa teologica

La lettera ai Romani è un testo fondante del cristianesimo, e per secoli è stato commentato da autori importantissimi, al punto che una loro rassegna equivale a percorrere buona parte della teologia cristiana, da Origene a Tommaso d’Aquino, da Lutero a Karl Barth. E del «mistero d’Israele» trattato nei capitoli 9-11 fa parte questa previsione sul suo destino ultimo, legato a quello della salvezza dell’intera umanità – le «genti» sono infatti i pagani – in un tempo che l’apostolo non precisa. Accadrà alla fine, quando vi sarà l’avvento definitivo del Messia?

Al di là delle interpretazioni del brano paolino, è sulla sua base che nell’Inghilterra del Seicento e poi nelle prime colonie americane alcuni teologi puritani (William Gogue, Increase Mather) ragionano sul ritorno degli ebrei in Palestina e sulla loro conversione finale, preludio al ritorno di Cristo. E oltreoceano la frontiera viene percepita dai pionieri come una nuova terra promessa, preludio di quella identificazione ideale tra America e Israele che accompagna il sionismo cristiano degli ultimi decenni, molto criticato per i suoi risvolti politici sia da cristiani che da ebrei.

Queste speculazioni dell’età moderna intersecano le correnti millenariste, che sono caratterizzate dall’attesa del regno millenario di Cristo evocato dall’Apocalisse (20,4) già nel cristianesimo antico e hanno poi una vita lunghissima, sia pure marginale. Fino a secolarizzarsi, oppure a presentarsi in forma sfumata, come nel gesuita cileno Manuel Lacunza, morto a Imola nel 1801 dopo l’espulsione dell’ordine dai domini spagnoli: anche per lui la conversione degli ebrei deve precedere il regno millenario di Cristo. La sua opera Venida del Mesías en gloria y magestad viene messa all’Indice nel 1824, ma ha una larga influenza, e ancora nel 1944 il Sant’Uffizio avverte che il «millenarismo mitigato» non può essere insegnato senza pericolo.

Pochi anni dopo la condanna romana dell’opera di Lacunza, in Inghilterra il pastore anglicano dissidente John Nelson Darby, fondatore della comunità settaria dei Plymouth Brethren, elabora il «dispensazionalismo» (dal termine dispensation, «ordinamento» predisposto provvidenzialmente da Dio). Sulla base di un’interpretazione strettamente letterale della Bibbia, questa teoria afferma che le profezie bibliche sul ritorno degli ebrei nella terra promessa sono destinate a realizzarsi storicamente prima del ritorno di Cristo.

La questione americana

Grazie ai viaggi in America di Darby, il dispensazionalismo attecchisce negli Stati Uniti e nel corso dell’ultimo secolo si diffonde tra i cristiani evangelici, saldandosi con il controverso sionismo cristiano e offrendo «ai fondamentalisti una potente nuova chiave di lettura delle Scritture», come ha scritto Massimo Giuliani su «Vita e Pensiero». In questo modo infatti gli evangelici contrastano l’interpretazione storico-critica della Bibbia, ma nello stesso tempo si distaccano anche dal tradizionale antigiudaismo cristiano contenuto nella «teologia della sostituzione» secondo la quale la chiesa avrebbe sostituito Israele (ma che è contraria alla visione della lettera ai Romani).

Persino dopo la Shoah la teologia della sostituzione contraddistingue la reazione vaticana il giorno stesso della proclamazione dello stato d’Israele. «L’Osservatore Romano» scrive infatti, nel 1948, che «l’Israele moderno non è l’erede dell’Israele biblico. La Terra Santa e i suoi Luoghi santi non appartengono che al cristianesimo: il vero Israele». Nell’autunno di quello stesso anno esce però in Francia il libro – Jésus et Israël dello storico ebreo Jules Isaac – che avvia la svolta nei rapporti tra cristiani ed ebrei, decretata per i cattolici dal concilio e sviluppata nel successivo mezzo secolo (sul piano politico, con la storica firma a Gerusalemme dell’accordo fondamentale tra Santa sede e Israele durante il pontificato di Wojtyła).

In quegli stessi mesi del 1948 il ventenne Joseph Ratzinger sta iniziando a studiare nella facoltà teologica di Monaco. Proprio allora – ha ricordato nella sua autobiografia – «l’Antico Testamento è divenuto importante per me e ho capito sempre di più che il Nuovo Testamento non è il libro di un’altra religione», anzi ebraismo e fede cristiana «sono due modi di far proprie le Sacre Scritture di Israele». A quegli anni lontani risale dunque la convinzione che lo porta poi a essere il papa che sul piano teologico più ha operato per la reciproca comprensione tra chiesa e sinagoga.

Il filosemitismo cristiano contemporaneo comunque germoglia e reagisce al tenace antisemitismo nella Francia spaccata dal caso Dreyfus grazie a letterati come Léon Bloy e Charles Péguy. Entrambi sono legati a Jacques Maritain, il giovane dreyfusard che sposa Raïssa Oumançoff – esule da Mariupol e appartenente alla «Razza primogenita alla quale Dio si è affidata e che ha contemplato i suoi Angeli» (Lettres intimes, Desclée de Brouwer) – e diviene un altro protagonista del filosemitismo cristiano.

L’ebraismo, «come lo comprende Buber», e il cristianesimo, «com’è interpretato e rappresentato dalla chiesa cattolica», sono – secondo il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar – «i due ultimi testimoni nel mondo di una missione assoluta, affidata da Dio». Ma in definitiva il destino futuro di entrambi (e del mondo) resta celato nel mistero di Israele annunciato da Paolo.

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