Per dirtene subito una, una abbastanza sempliciotta, a me piaceva molto la «sigaretta posata». Quella è una fumata che sicuro mi mancherà, in futuro.

L’hai fatto mai?

È quando non riesci a fumare perché hai le mani occupate a fare altro, ma ti è comunque indispensabile fumare. Appoggi la sigaretta da qualche parte e ogni tanto torni a riprenderla per fare un tiro.

Prima di decidere di posarla, tu hai già provato a tenerla tra le labbra lasciando le braccia libere: il fumo però ti è andato negli occhi oppure il filtro si è incollato sul labbro e insomma, lo vedi, è un impiccio.

Il tentativo più comune è di poggiarla sul portacenere, un po’ sollevata, in equilibrio orizzontale, in modo che la brace non venga a contatto con la base perché altrimenti si spegnerebbe. Oppure la sistemi sul bordo di qualcosa, su un muretto o anche in bilico sopra un gradino o comunque in un posto certo, senza vento, mentre le tue mani sono impegnate con un impasto, un lavoretto, una pesca. Come sempre, la sua bellezza è nella «percezione»: tu sai di averla, tu sai di poterla fumare, come quando parti per un volo ma sai, sai benissimo, che appena atterri te la fumerai.

La migliore di sempre

La migliore “sigaretta posata” me la fumai in un’isola delle Fiji, quando navigavo nel Pacifico per sentirmi Fletcher Christian. Ero ipnotizzato da un ragazzo che pescava con una tecnica cla-mo-ro-sa: si metteva in piedi sopra una grande roccia triangolare, levigata dalle mareggiate, che ricordava una prua terrestre. A destra l’acqua appariva nera, nerissima, come una grande quantità di petrolio persa da un Cargo fallato: erano migliaia di acciughine che passavano a quell’ora simili a una enorme corrente d’inchiostro, ammassate e indivisibili. Il pescatore aveva un’abilità pazzesca: lanciava la sua lenza in quel flusso di acqua scura e la strappava subito. Lanciava e strappava. Lo strappo agganciava all’amo almeno un’acciuga e con lo stesso movimento, simile a uno sbandieratore, la rigettava nella parte di mare a sinistra della prua, quella chiara e trasparente, come esca per un pesce più grande. Che abboccava, tu mi devi credere, all’istante.

Mamma mia, che abilità.

Ero così incantato a studiare i movimenti del suo braccio, nel passaggio cioè dall’acciughina al pesce grande, che il pescatore tirò fuori un’altra lenza e mi invitò a provare. Allora io, che stavo proprio fumando, poggiai la sigaretta sopra un bel sasso smussato a un metro da me. Con la mia lenza iniziai a lanciare a destra e a rilanciare a sinistra, dopo aver strappato forte. Per ogni paio di tentativi andati a vuoto, riprendevo la mia sigaretta per succhiare un tiro di grandissimo, consapevole, appagamento. Rimasi più di mezz’ora a pescare e a fumare in quel modo. Abbandonai soltanto perché si stava facendo buio.

Il pescatore fijiano indicava il mio braccio facendosi grandi risate coi suoi denti bianchissimi. Pensai si riferisse alla mia scarsa capacità tecnica, perché io avevo pescato quattro pesci e lui una quarantina. La mattina dopo capii il motivo delle sue risate: a causa di tutti quei lanci e di tutti quegli strappi, mi vennero dei dolori alla spalla e al braccio destro che mi immobilizzarono e mi costrinsero a fumare, per quasi due giorni, usando la mano sinistra.


Il testo è un estratto da Smettere di f. I deliri di un tabagista, Bompiani Amletica leggera

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