Carlo Trigilia e Franco Monaco, nei loro recenti interventi su questo giornale, hanno posto lo stesso problema: il Pd mostra segni di ripresa e di vitalità, ma non emerge ancora una visione, un progetto di sviluppo per il Paese, in grado di proporsi come un’alternativa credibile al disegno di governo della destra. Sia Trigilia che Monaco condividono un giudizio positivo: la nuova segreteria è riuscita a rimotivare una base di militanti che, nonostante l’impoverimento degli ultimi anni, continua ad essere una risorsa essenziale per il partito, come mostra il successo (non scontato) della manifestazione di Roma; e, con un’insistente campagna su alcuni temi, ha iniziato a ridefinire l’immagine e la collocazione del partito. Ma credo che colga nel segno Trigilia, quando osserva come una “sommatoria” di programmi, di single-issues policies, non sia sufficiente a delineare una “visione complessiva”, la sola che può parlare non all’“intera” società italiana – come spesso si dice impropriamente: un partito è pur sempre una parte, deve individuare la coalizione di interessi sociali che intende prioritariamente rappresentare – ma a quei larghi suoi settori che sono interessati ad un reale cambiamento, verso una maggiore giustizia e coesione sociale e territoriale.

Come nasce una visione
Ma come costruire questa “visione”? Basta scrivere un bel documento? Credo proprio di no: “una visione”, per un partito, è molto di più, ed è qualcosa di molto impegnativo. È una cultura politica, una lettura della società italiana (e del mondo), un insieme di analisi e di principi-guida che ispirino poi le singole proposte programmatiche. E, soprattutto, è un insieme di idee che divengano un patrimonio condiviso nel partito e nei suoi iscritti, e in una più larga cerchia, in grado di farsi poi “senso comune” in tutti i luoghi, fisici e digitali, in cui si articola una sfera pubblica. Un insieme di idee, insomma, capace di misurarsi sul terreno dell’egemonia culturale.
L’egemonia della destra, oggi, non consiste tanto, o solo, nell’occupazione dei media o delle istituzioni culturali: sta nella colonizzazione del senso comune (gli immigrati, gli scansafatiche che prendono il reddito di cittadinanza, i delinquenti liberi di girare, eccetera).

A questo sistema ideologico della destra non basta opporre singole proposte concrete e discorsi “ragionevoli”: occorre costruire un altro modello di discorso pubblico, e un discorso “forte”, che può nascere solo da una solida elaborazione di idee e di principi, e da un protagonismo diffuso di cittadini e militanti che padroneggino e sappiano diffondere schemi interpretativi alternativi (anche a questo serve un partito organizzato).

Nessuna nostalgia
Il bisogno di una visione “complessiva” non è frutto di nostalgie organiciste, anacronistiche nel tempo di una politica post-moderna: è una necessità politica. Si prenda un esempio, quello delle politiche fiscali. È evidente che l’Italia, con il peso del suo debito pubblico, potrà finanziare sanità, scuola, ricerca, servizi, o il risanamento idrogeologico, solo sulla base di un intenso programma di spesa e di investimenti pubblici.

La domanda, che domina nei discorsi correnti, è la solita: dove trovate i soldi? E non se ne esce, anche nel contradditorio argomentativo, se non si mette in campo una politica (organica, appunto) di profonda redistribuzione del reddito e dei pesi fiscali, non avendo esitazioni nell’individuare una parte delle società italiana che deve essere colpita nei suoi interessi e nei suoi privilegi, e mobilitando invece quelle altre parti della società italiana che ne trarrebbero dei benefici. Una politica “passa” se riesce ad attivare un livello di consensi tale da neutralizzare le resistenze di chi sarebbe danneggiato: un messaggio “complessivo” serve appunto a costruire il consenso dei più e a isolare la difesa degli interessi costituiti.

Ad esempio, Draghi, a suo tempo, provò timidamente ad avviare un processo di riforma del catasto: fu subito stoppato dalla destra, mentre il Pd balbettava. Domina un sacro terrore, quando si parla della proprietà della casa: ma non credo sarebbe davvero così impopolare un discorso che dicesse: «Anche a parità di introiti complessivi, occorre cambiare i pesi nella tassazione delle rendite immobiliari (insostenibile oramai, come dimostra la situazione disastrosa in molte città italiane). Che ognuno paghi il giusto sulla base delle case, e del tipo di case, che possiede!».
Difficile certo, ma il Pd dovrebbe almeno provarci, facendo tesoro degli errori commessi. Proprio in materia fiscale, c’è un esempio clamoroso da ricordare. Proprio agli inizi della campagna elettorale del 2022, il Pd, con il suo segretario Enrico Letta, lanciò una proposta, quella cosiddetta della “dote ai diciottenni”, da finanziare con un piccolo prelievo sui grandi patrimoni. Una proposta ragionevole, sostenuta dal Forum Diseguglianze Diversità. Ebbene, lanciata così sul mercato mediatico della politica, l’idea fu subito impallinata, e poi sparì dai discorsi, bollata come una patrimoniale mascherata, ennesimo esempio di una sinistra che “vuole mettere le mani nelle tasche degli italiani”. È un caso da manuale: un tentativo di assalto, respinto con perdite. Che mostra, appunto, come una singola proposta, slegata da un contesto programmatico e di principi, sia del tutto insufficiente a creare consenso, anzi.
La costruzione di una “visione” complessiva, dunque, è un compito imprescindibile e non è facile; ma il vero guaio è che il Pd, così com’è, non è attrezzato per affrontarlo, per i modi stessi con cui, sin dalle origini, è stato concepito, come un partito catch-all, in cui le culture politiche restavano sullo sfondo (per poi svanire, di fatto), ritenendo che lo si potesse tenere insieme solo sulla base dei programmi.

La conferenza di organizzazione

Oggi, nel Pd, non ci sono nemmeno le sedi per produrre un’adeguata elaborazione politica e intellettuale (a proposito: cosa pensa di fare la Fondazione, che pochi mesi fa si è deciso di rilanciare?). Occorrerebbe attivare strumenti e canali adeguati, vecchi e nuovi.

È stata annunciata una Conferenza di organizzazione, da tenersi a questo punto, evidentemente, dopo le elezioni: speriamo che sia un’occasione in cui il Pd possa ripensare radicalmente il suo modo di discutere, decidere e funzionare.

Tra gli strumenti che si potrebbero attivare ce ne è uno, (già previsto nell’attuale Statuto, e mai utilizzato): la Conferenza programmatica annuale. Come concepire questa Conferenza?

Non certo come un consesso in cui si presentano le proposte del partito. Dovrebbe essere un processo aperto da un documento programmatico, con tesi puntuali, nero su bianco, centrato sui temi da affrontare (alcuni, non tutti), aperto alla discussione interna ed esterna, emendabile e votato nelle unità di base e poi approvato da una platea di delegati. Un processo di coinvolgimento quanto più possibile ampio, che valorizzi risorse intellettuali, competenze ed esperienze diffuse, disposte a dare un contributo di idee.

L’online non basta
Dentro questo processo dovranno avere un grande ruolo anche le piattaforme digitali. Ma francamente dubito che la soluzione, per costruire un grande progetto per l’Italia, sia quello delle assemblee tematiche on line suggerite da Monaco. Sono sempre utili, ma saremmo ancora nella fase dell’“ascolto” e l’esito prevedibile sarebbe, ancora una volta, una “sommatoria di proposte, suggestioni, cahiers de doléances, rimandando ad una qualche altra sede poi la sintesi.

Piuttosto va ripresa l’idea che, nei prossimi mesi, e poi sempre più nell’approssimarsi delle elezioni politiche, si sviluppi nel paese una rete di comitati (che richiamino l’esperienza di quelli dell’Ulivo di trent’anni fa) in grado di esprimere una forte spinta unitaria “dal basso” e di costruire e far vivere il programma della futura, auspicabile (e necessaria) coalizione che dovrà affrontare le elezioni. Ma è cosa diversa da ciò che è un compito proprio di un partito, oggi.

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