Per chi ha a che fare con la fisica, e in particolar modo con le varie interpretazioni della meccanica quantistica, la presenza numinosa di John von Neumann è legata alla dismissione pressoché generalizzata della teoria a variabili nascoste di David Bohm.

Formulata nei primi anni Cinquanta del Novecento, la teoria intendeva svelare i misteri che ancora pesano sull’interpretazione dei fenomeni quantistici proposta dalla cosiddetta “scuola di Copenaghen”. I sostenitori di quest’ultima attribuivano un ruolo decisivo alla probabilità e ritenevano dunque che la teoria vivesse di un ineliminabile momento di indeterminazione: nell’atomo, l’elettrone si muove attorno al nucleo solo lungo certe precise orbite, a certe precise distanze, e “salta” poi imprevedibilmente da un’orbita consentita a un’altra.

Quello che succede durante questo salto e perché salti sono questioni a cui la fisica deve riconoscere di non poter rispondere. È noto come un tale punto cieco urtava la pur giudiziosa suscettibilità di Einstein: il darsi degli eventi, a suo avviso, non può seguire il caso, bensì direzioni determinate, dunque determinabili da una teoria completa.

Sensibile a questo orrore per una casualità randomica, Bohm avanzava un’interpretazione degli stati quantici in cui le particelle sono distribuite nello spazio e sempre localizzabili in maniera definita, mentre un’onda-guida governa il loro moto. Nessun salto indeterminato, quindi, ma qualcosa che la teoria può prevedere e misurare in ogni istante.

Benché del massimo interesse, non rilevano qui le differenze tra le due interpretazioni. Rileva piuttosto il modo in cui von Neumann di fatto relegò l’ipotesi bohmiana nell’archivio della storia della fisica: l’interpretazione di Copenaghen e quella di Bohm, in termini di predizioni, conducevano ai medesimi risultati, quindi si equivalevano.

In tal caso, concludeva von Neumann, la scelta tra le due doveva basarsi esclusivamente sui criteri della semplicità e dell’estetica; e a suo giudizio, sotto questo profilo, quella di marca danese era assai più gratificante.

Il romanzo

L’iridato libro di Benjamín Labatut, Maniac, Adelphi, 2023, è di fatto un affresco della vita e dei prodigi intellettuali di John von Neumann, ungherese di nascita, statunitense d’adozione, punta di diamante della matematica novecentesca in pressoché tutte le sue applicazioni, dai fondamenti purissimi alla strategia militare, passando per la fisica e l’informatica.

Nel metodo tipico dello scrittore cileno, la fiction e la non-fiction cooperano senza sosta né criteri distintivi. Il libro è un reportage di testimonianze (artefatte) di alcune tra le menti più brillanti del Novecento, assieme a poche comparse femminili, legate alla biografia affettiva di von Neumann.

Quale che sia il metodo letterario di Labatut, con tutta la sua avvincente problematicità, il punto centrale del libro a me pare una sorta di morale, in cui la complessa parabola delle intelligenze umane, specie quelle più somme, viene messa in contrappunto con l’odierna proliferazione delle intelligenze artificiali.

Detta morale può sintetizzarsi come segue: i geni umani o ammattiscono prima d’incrudelirsi, e magari si tolgono la vita per evitare guai peggiori a loro stessi e al prossimo, o s’incrudeliscono precocemente e si mettono al servizio di persone ancora più crudeli (e nemmeno troppo geniali).

Nell’un caso come nell’altro, nondimeno, residua quel fondo di umanità che fa intravvedere un limite, o quantomeno lo fa valere senza che ce se ne avveda. Lo stesso, però, non vale per le intelligenze che eguagliano e più spesso sopravanzano quelle umane e che tuttavia si trovano sprovviste di quel limite inscritto nella natura del bipede loquace.

Esseri umani e robot

Il libro si apre con l’omicidio-suicidio di Paul Ehrenfest, uno dei decani della fisica primo-novecentesca, che dispera dinanzi all’incedere della follia nazionalsocialista, e, assicuratosi il benessere degli altri figli, spara al figlio più giovane, affetto da sindrome di Down, e poi punta la pistola contro sé stesso.

Si chiude con un dettagliato racconto di come gli algoritmi di intelligenza artificiale, basati su tecniche di apprendimento automatico, vadano oggi sbaragliando i più celebrati fuoriclasse (umani) di un antico, nobilissimo e sofisticato gioco da tavolo strategico chiamato go, elaborato in Cina millenni or sono e popolarissimo in Asia orientale.

Il nucleo più corposo del libro si snoda lungo la permanenza di von Neumann negli Stati Uniti, con la collaborazione al progetto Manhattan, in cui seppe garantire la massima letalità possibile dell’esplosione atomica, l’apporto fondamentale alla messa a punto della bomba all’idrogeno nel 1952, i contributi insuperati in teoria dei giochi (che scatenavano le pulsioni più truculente degli strateghi militari statunitensi nella sala hobby della Guerra fredda), e il suo preveggente studio delle intelligenze artificiali.

Ne emerge il ritratto di un uomo d’impareggiabile estro e di sconsiderata adesione a prospettive estreme, con audaci proclività guerresche e punte di istinto sanguinario. Il suo acume incuteva timori reverenziali e gli creava inimicizie, mentre il suo fare svagato e incline al lusso lo rendevano, se possibile, più antipatico.

Ripercorso il racconto lungo questa traiettoria, assistiamo al collasso di due estremi. Da una parte un fisico scrupoloso e sensibile alle considerazioni morali, come Ehrenfest, che fa valere con paranoica urgenza il limite inscritto nella natura umana e che si uccide, come in un rituale di purificazione collettiva ripiegato su un individuo a rappresentare una scienza destinata alla perversione etica.

Dall’altra l’intelligenza artificiale, che colonizza tutti i campi in cui si rende necessario il calcolo di tutte le potenziali opzioni dinanzi a un numero potenzialmente elevatissimo di scelte. Non solo pura addizione e sottrazione, quindi, ma un’accuratissima capacità di scelta, affinata sulla base delle passate esperienze.

La contraddizione

Tra questi due estremi sta von Neumann, colui che nel Novecento ha incarnato al meglio gli estremi di una contraddizione: un matematico di portata incommensurabile (soprattutto per la straordinaria potenzialità applicativa delle sue intuizioni) rimuove quel residuo di umanità, capace di temperarne gli spiriti malvagi, e abbraccia con cinica leggerezza tutte le possibili conseguenze dei formalismi.

Non importa dove il calcolo porti: se esso è esatto, i suoi esiti devono applicarsi. E figuriamoci se sia un problema che, ad esempio, la conseguenza del calcolo sia un conflitto atomico: se la matematica spinge in tal senso, lì si deve andare, poche storie e pochi scrupoli. E così il suo sogno era perfezionare un’entità matematizzata, priva di ogni ingombrante residuo di natura animale.

Non che la morale promossa da Labatut sia spoglia di realistico buonsenso. Eppure, a mio avviso, rimane un punto che il libro non prende in considerazione. Torno quindi al problema sollevato in apertura a questo scritto.

Von Neumann non credeva che la realtà fosse interamente conchiudibile entro le maglie strette di alternative computazionali, tant’è che, a suo giudizio, assieme al pensiero puro, la matematica vive di un momento di empiria induttiva che si avvicina all’arte.

Scrive nel saggio The Mathematician: «Credo che sia corretto dire che i criteri di selezione [del matematico], così come quelli di successo, siano principalmente estetici». Un’affermazione, questa, così sfacciatamente umana da far inorridire chi aspira a mondare la nostra natura dei residui di ogni biologica imperfezione, e che irriterebbe per certo il von Neumann affrescato da Labatut.

Eppure, in ciò sta una differenza su cui sorvola con troppa scioltezza sia chi esalta sia chi teme le intelligenze meccaniche: l’estetica, come qualsiasi campo del sapere umano, non è riducibile alla preferibilità di un’opzione rispetto a un’altra in base al calcolo, pur prodigioso, di tutti gli antecedenti.

Come nel caso della teoria bohmiana, ahinoi silurata con un semplicismo che dovrebbe scuotere le coscienze scientifiche, il calcolo si arrende all’eguaglianza sostanziale delle opzioni e nella scelta fa intervenire altro: estetica, certo, insieme a interessi coagulati, gruppi di potere consolidati, simpatie, fedi tacite, e persino capricci del momento.

E in tal senso la mia convinzione è coriacea: gli esseri umani, in fatto di canaglieria, soverchiano qualsiasi entità non umana, e in virtù di tale impareggiata dote istintuale sapranno prevalere su chiunque operi solo sulla base di opzioni logicamente preferibili.

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