Diceva Nanni Moretti in Caro diario che anche in una società più decente si sarebbe sempre trovato a suo agio e d’accordo sempre con una minoranza. Mi duole dirgli che ha sbagliato pronostico.

Temo che in questo suo Il sol dell’avvenire, che esce in sala il 20 aprile e poi corre a Cannes in gara per una Palma d’oro che potrebbe essere la numero due dopo quella per La stanza del figlio (meglio però tacere, per scaramanzia), ci riconosceremo tutti, maggioranza di una minoranza se proprio vogliamo, ma tutti avvinghiati al nuovo slogan che il suo regista Giovanni, nella finzione del film, ci propone: «La storia non si fa con i “se”. Chi l’ha detto? Io invece la voglio fare proprio con i “se”».

Rifare la storia con i “se” vuol dire speranza. Vuol dire non buttare via il bambino con l’acqua sporca. Il privato non è mai stato così politico quanto lo è oggi. E se fai cinema da 47 anni può succederti, se non tradisci te stesso, di intercettare il sentimento trasversale di molti, se non di tutti.

Secondo Silvio Orlando, tornato protagonista con Moretti dopo 17 anni ma titolare di ben cinque titoli suoi (tanti quanti quelli di Margherita Buy) puoi capire di che umore è Nanni guardando i film che fa. L’umore percepito stavolta è sul bello stabile. Fa venir voglia di cantare in coro stonato tante belle canzoni che ci rimettono al mondo, che sono passato e presente: Sono solo parole (Noemi), Lontano, lontano (Luigi Tenco), La canzone dell’amore perduto (Fabrizio De André), Think (Aretha Franklin in specie nei Blues brothers, con le pianelle rosa), Voglio vederti danzare (Franco Battiato). «Il cinema fa ragionare e sognare – ha detto Moretti in un’intervista recente – Tanto vale fare bei sogni». 

La rinascita dopo Tre piani

«Centonovanta paesi...Centonovanta paesi...Centonovanta paesi...». Chi era al festival di Cannes nel 2021 ricorda benissimo il tormentone comico anti Netflix che Nanni Moretti ha intonato per tutti i microfoni ufficiali e non ufficiali nell’anno del suo passaggio meno trionfale al festival che lo ha adottato fin dal 1978 col suo secondo film, Ecce Bombo.

Tre piani non fu accolto bene, anche dai critici d’oltralpe più affezionati, ma Cannes è il solo festival che si rifiuta ostinatamente di mettere in concorso le produzioni delle piattaforme, e per Moretti era un fiore all’occhiello aver tenuto in naftalina il suo film, resistendo alle sirene della circolazione in streaming «in centonovanta paesi», per attendere che la fine della pandemia consentisse al suo festival di elezione di riaprire le porte.

Le mie amiche Valia Santella e Federica Pontremoli, che firmano come co-sceneggiatrici anche il nuovo film (con la new entry Francesca Marciano) mi assicurano che la battuta era già scritta. Nel Sol dell’avvenire la ripetono fino alla nausea tre rampanti dirigenti di Netflix, ansiosi di glorificare i superpoteri dell’azienda quanto di precisare le leggi inflessibili del logaritmo: in quale esatto minuto scatta il turning point? E perché manca il momento what a fuck?

Insomma, al festival Moretti semplicemente provava le battute. Se volesse essere una variante di Boris il film di Moretti potrebbe concedere spazio a questo esilarante siparietto: le amiche co-sceneggiatrici mi assicurano che ci sono ciak sufficienti per un secondo film, il grosso è stato tagliato. Ma i temi che si affollano sono troppi, e mescolati, esattamente come nelle nostre vite di tutti i giorni.

Un film morettiano

Il sol dell’avvenire è un film morettiano all’ennesima potenza, anche se lui detesta quest’aggettivo, cumulato alle sue innumerevoli idiosincrasie, tipo per i sabot e le pantofole (unica eccezione le pianelle rosa di Aretha Franklyn, come già detto).

Il suo Giovanni regista, a cui finalmente non cambia il nome di battesimo evitando l’Apicella di sua madre (cosa molto normalizzante e significativa, ma io adoro sua madre, era la mia insegnante di riferimento al liceo Visconti), sta girando un film sui comunisti italiani del 1956, anno dei carri armati sovietici in Ungheria.

È uno spartiacque, e prima dell’evento Silvio Orlando, redattore dell’Unità e segretario della sezione Antonio Gramsci del Quarticciolo, ha invitato un circo ungherese a Roma. È complicato spiegare ai giovani collaboratori del film che all’epoca il Pci aveva due milioni di iscritti, che non erano russi immigrati.

C’è un immenso uso del cinema bello che fa sorridere e piangere insieme. Il rito propiziatorio che il regista usa in apertura di un nuovo film da girare è la visione domestica di Lola, con Anouk Aimée. Il produttore francese del film è Mathieu Amalric, cosa che sarà di notevole supporto per il successo francese.

È lui a dire che il film «è una metafora del cinema oggi, sospeso lassù come il trapezio del circo». Altro cinema di riferimento: Krzysztof Kieślowski, i Taviani di San Michele aveva un gallo («politico ma anche poetico»), il Fellini della Dolce vita. Nella vita due o tre principi ci vogliono: è il mantra di Moretti, è anche il nostro.

Per esempio Margherita Buy, nel film sua consorte e produttrice abituale, sta lavorando con un nuovo regista di genere, superviolento come oggi è costume. E Moretti, da esterno, interrompe il ciak finale e interpella per consulenza Renzo Piano, Corrado Augias, perfino Martin Scorsese (che ha la segreteria) sull’etica-estetica del cinema.

Al Giovane Regista, che sta girando un unhappy end con un buco in testa alla vittima, spiega: «La scena che stai girando fa male al cinema». Sceneggiatori, attori, registi, secondo lui, sono da anni vittime di un incantesimo: «Una mattina vi sveglierete e comincerete a piangere, perché vi renderete conto di quello che avete combinato». È urgenza pedagogica forse, mentalità da boomer, ma è della nostra testa che sta parlando.

Quando si uccide, nel cinema di Kieślowski, «le scene di allontanano dalla violenza, non ti viene voglia di imitarle». Bacchetta a raffica, Moretti, ma non da isolato: bacchettiamo di cuore con lui. Nella sua sceneggiatura originale per il film pensa di far impiccare Silvio Orlando, travolto dalla contraddizione tra l’orrore per i fatti di Ungheria e la linea togliattiana di fedeltà all’Unione sovietica. Ci ripensa con le parole di Italo Calvino nel cuore: «Cesare Pavese si è ammazzato perché noi imparassimo a vivere».

E cambia in corsa la sceneggiatura: sotto la sede storica delle Botteghe oscure, oggi sostituite da un supermercato. La rivolta di base impone al Pci una svolta anticipata: «Unione sovietica, addio!» Questo significa salvare anzitempo Marx, Engels e l’utopia di un altro mondo possibile. L’altra Storia possibile, con il ritratto di Trotsky al posto di quello di Stalin, in una parata finale ai Fori imperiali (spoiler, attenzione!) che è la summa di tutto il suo cinema, presente, passato e forse futuro.

L’altra versione di Veltroni

Moretti sa bene che il cinema, più delle cronache di palazzo, più dei libri, è stata la vera molla di formazione politica della nostra generazione. Politica intesa come estetica=etica, come visione del mondo. La tentazione di confrontare Il sol dell’avvenire con Quando, l’ultimo parto cinematografico di Walter Veltroni, è diabolicamente irresistibile.

Un mio spiritoso amico, Tobia Cimini, ha scritto che Veltroni adatta il sé stesso romanziere al sé stesso regista per far luce sul sé stesso politico. Il bilancio di Veltroni è fallimentare. «Era sbagliata l’ideologia, non le persone», come proclama il buon Neri Marcorè. Il sillogismo è implicito: il Veltroni regista benedice il Veltroni politico. Le idées reçues, detta alla Flaubert, di Veltroni sono infinite: da Goodbye Lenin del 2003, allo sketch di Avanzi del 1993 con Antonello Fassari, a Meno dodici di Pierdante Piccioni e Pierangelo Sapegno (Mondadori 2016) con fiction Rai di grande successo, Doc-Nelle tue mani. Ma i film di Veltroni a Cannes non li invitano.

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