Cominciamo dal tabù. Per la Treccani il termine indica, in etnologia e in storia delle religioni, l’interdizione o il divieto sacrale di avere contatto con determinate persone, di frequentare certi luoghi, di cibarsi di alcuni alimenti e di pronunciare determinate parole, per motivi di rispetto, per ragioni rituali, igieniche e di decenza. In psicanalisi, invece, il termine indica ogni atto proibito, ogni oggetto intoccabile, ogni pensiero non ammissibile alla coscienza, come nel caso emblematico dell’incesto.

Nel corso dei secoli il tabù si è rivelato una formidabile arma di controllo nell’ambito soprattutto dell’inviolabilità delle persone indifese e il suo ricorso si è reso necessario. Ma bisogna distinguere due tipologie di tabù: quello protettivo o di ammonimento a larga scala sociale e quello ideologico e superstizioso, circoscritto alle tribù di appartenenza.

L’11 Settembre 2020 Maria Paola Gaglione viene speronata sul suo motorino, insieme al compagno Ciro Migliore, dal fratello Michele Antonio Gaglione, incapace di comprendere l’amore della sorella per un ragazzo nato femmina e divenuto uomo. Maria Paola perde la vita a ventidue anni. Sei anni prima, il 25 Giugno 2014, Fortuna Loffredo, di appena sei anni, viene scaraventata dall’ultimo piano del suo palazzo, dopo essere stata ripetutamente abusata.

Ancora prima, il 28 Aprile 2013, Antonio Giglio, di tre anni, muore precipitando dal settimo piano dello stesso edificio.

Il filo rosso

Lo scenario di questi tre atroci, inenarrabili delitti parrebbe lo stesso: Parco Verde, Caivano, provincia nord di Napoli. La geografia, di fatto, è un unico filo rosso tra il piccolo Antonio Giglio e Maria Paola Gaglione. Eppure, l’ultimo dei tre casi ha dimostrato che il comune denominatore è un altro.  Fortuna, Maria Paola e Antonio sono stati tutti deliberatamente seppelliti, senza distinzione alcuna, sotto un unico ancestrale tabù. Nessuno di loro si è chiaramente svelato alla nostra coscienza e tutti e tre hanno faticato a disancorarsi dal mistero e a oltrepassare l’inchiesta giudiziaria.

Quando parliamo di incesto il tabù vieta di interrogarci su circostanze e moventi. La sua funzione etica e morale ci inchioda al sacrosanto rispetto dei più deboli e al narratore è chiesto di intervenire per indagare il sentimento di chi purtroppo ha subìto e fatto di tutto per sopravvivere e denunciare. È il caso del piccolo Antonio e di Fortuna.

La storia di Maria Paola e Ciro però è diversa. Non parla di abusi. È una storia d’amore. È manifesta, è limpida, e come tale non è sprofondata nel guado. L’ideologia che ha sterminato la vita di tutti i predecessori di Ciro non ha potuto fagocitarla. Non stavolta. La giusta comprensione di una cosa e l’incomprensione della stessa non si escludono, diceva Franz Kafka. Ma nel caso di Ciro Migliore le cose cambiano.

I media, riaccendendo i riflettori su una provincia abbandonata dalla Stato, si sono macchiati di incapacità: nel tentativo maldestro di tirare il delitto fuori dal tabù, non sono riusciti a decodificarlo, rivelandosi anacronistici e inadeguati a leggere il cambiamento. Se l’inchiesta di Fortuna, pur arricchendosi di nuovi colpi di scena, aveva potuto lasciarci in una nebulosa su ciò che era realmente successo, quella stessa confusione nel caso di Maria Paola è risultata intollerabile. Da un lato, i bambini che non si toccano neanche con un dito e, dall’altro, un’insidiosa domanda: “Quanto possiamo accettare che non si può morire per amore, senza interrogarci sul perché di un omicidio così aberrante?"

Un luogo lontano

All’inizio della narrazione, di fronte ai titoli dei giornali, ci siamo sentiti tutti, come al solito, immuni, perché il luogo della tragedia era lontano e non paradigmatico. Ma percepita la risonanza della morte di Maria Paola nella nostra società, non siamo più riusciti a censurare la questione dentro di noi e a circoscriverla a Parco Verde. L’indecifrabilità di quel barbaro fratricidio non ha retto, costringendoci ad ammettere che non abbiamo gli strumenti per comprenderlo. Una rivelazione consegnataci su un piatto d’argento proprio da quei media che avrebbero dovuto venirci in soccorso.

Far precipitare Maria Paola e Ciro nel medesimo tabù di Fortuna è equivalso a paragonare la storia di una donna che ama un uomo (nato femmina) a una storia di incesto. Lo abbiamo percepito e questo ci ha messo in crisi. E, allargando il campo, ci ha riportato a quell’atroce e abusata associazione omosessualità/pedofilia che è stata cavalcata per secoli e che, fino ai nostri giorni, ha condannato milioni di innocenti all’umiliazione, allo stigma e alla reclusione.

Meno omosessuali e transessuali abbiamo visto in giro, più non abbiamo pensato alla loro mancanza di diritti; meno effusioni in pubblico sono state loro socialmente concesse, più in profondità si è radicato il tabù; più abbiamo giustificato la nostra omofobia tirando in ballo i nostri figli – davanti ai quali gay e trans non avrebbero dovuto baciarsi - più gli assassini di Maria Paola hanno pascolato tra noi.

Dalla prigionia di Giovanna d’Aragona, detta “la pazza”, rea nel XVI secolo di aver contratto in matrimonio il suo segretario, e murata viva per questo dai suoi familiari nella Torre dello Ziro ad Amalfi, sembra passato solo un giorno. Ma se attorno alla figura dell’amato segretario non si sono dipanati dubbi, su Ciro e sulla sua identità, cinque secoli dopo, sono iniziate ad accavallarsi ricostruzioni iperboliche e nessuna azzeccata: uomo, donna, maschio, femmina, trans, gender, gay, lesbica. Ciro sopravvissuto (almeno fisicamente) alla tragedia ha visto innalzarsi contro di sé il muro più violento e omicida del substrato culturale. Sulla sua pelle ha dovuto provare l’onta dell’irresponsabilità civile di chi in questi anni si è scagliato contro la Disney per aver fatto di Elsa una principessa lesbica o di chi è sceso in piazza per far ritirare dalle scuole le avventure di Piccolo Uovo, un pulcino desideroso di conoscere tutte le tipologie di famiglia, comprese quelle arcobaleno.

L’umiliazione di non riuscire a sbrigliare la matassa ha però acceso una fiammella in chi ha brancolato in questo caos. Quasi tutte le testate, che non sono state in grado di mettere in fila tre concetti di base - sesso, genere e orientamento sessuale - a distanza di qualche giorno hanno fatto retro front e hanno restituito una sintesi più centrata e imboccato il lettore con una nuova e pertinente semplificazione.

Anche il papa - laddove perfino i protagonisti dei movimenti femministi e della scena lesbica non sono stati in grado di fare chiarezza, spiazzandoci - ha commentato la notizia sintetizzandola: “Amo i vostri figli così come sono, perché sono figli di Dio”.

L’accettazione

In tanti hanno criticato le nuove regole degli Oscar che hanno previsto film più inclusivi per accedere all’ambita statuetta e molti hanno storto il naso di fronte alla moda che, travalicando il genere, ha iniziato a proporre indumenti unisex in passerella. Ma in pochi continuano a stupirsi che, in ogni parte del mondo civilizzato, un bambino che gioca con le bambole o che decide di vestirsi di rosa fa ancora tanta paura.

Il tema dell’accettazione in un contesto del genere non può che apparire bisognoso di urgenti manovre. Di azioni correttive che, per non essere tacciate di dogmatismo, o di rispondere a precise regole di mercato, necessitano a loro volta di una cultura del diverso instillata all’origine della formazione dell’individuo, e cioè nelle scuole. Proibire ai bambini di essere educati allo sfumato - che non è solo fuori, ma dentro la propria personalità – etichettando con la fantomatica parola gender qualsiasi azione riformista in termini di cultura e rispetto, significa proibire a quei bambini, una volta adulti, di guardarsi dentro senza vergognarsi della propria unicità.

Mentre nel parlamento italiano è ancora in corso il travagliato iter di una legge contro l’omotransfobia - osteggiato da chi, parlando di legge bavaglio, confonde il diritto all’odio con la libertà di pensiero - Parco Verde ha dimostrato per la prima volta che l’orrore non è racchiuso dentro una palazzina di provincia, ma è radicato in ognuno di noi. Che Caivano non è la coda d’Italia, ma il ventre culturale dell’intero Paese. Che a divenire tabù, al pari dell’incesto, non debba essere la transessualità o l’omosessualità, ma l’omotransfobia.

Dietro alle parole, sesso, genere e orientamento sessuale si sono costruiti nei secoli muri di maschilismo e repressione. Ma il loro mix ha generato una deflagrazione nelle menti disabituate a pensare per sistemi complessi. Un corto circuito che ha costretto gli stessi detrattori della legge a chiedere, loro malgrado, allo Stato di intervenire.

Zygmunt Bauman ha affermato che la comprensione nasce dalla capacità di gestire: ciò che non siamo in grado di gestire ci è ignoto e l’ignoto fa paura. E la paura è un altro nome che diamo al nostro essere senza difese.

Raccontare storie

Chi racconta storie è chiamato a leggere la realtà, a scomporla in forme pure e a raggiungere lo spettatore. Ciascuno nel suo campo.

La Stampa indaga, la Musica denuncia, la Poesia si libra, il Cinema si posa.

Tutti sono chiamati ad alfabetizzarsi e a utilizzare il linguaggio correttamente. E a tutti è richiesto di equipaggiarsi dell’unico strumento realmente connettivo: l’empatia.

Il linguaggio non ha bisogno di parole - che ci sono e sono a disposizione di tutti - ma di sentire.

Il sentire nutre il linguaggio e lo rende giusto. Pesca le parole dal pozzo e le stende in un ordine chiaro e complesso.

Gli antagonisti del linguaggio sono le etichette e le definizioni.

Il nemico giurato, il tabù ideologico.

Parco Verde non va demonizzato, ma biasimato per essere divenuto il luogo nero su cui tutti abbiamo scagliato la pietra pur di non guardare dentro noi stessi.

Fare un film ispirato al caso di Fortuna Loffredo ha significato non parlare, né di Parco Verde, né di Fortuna, ma impugnare la lente d’ingrandimento contro l’ignoranza che genera assassini.

Se la finalità del Cinema è l’universalità dei contenuti, il luogo non è Caivano, ma Ovunque. Come, ovunque, il desiderio dei bambini di essere amati è tradito dagli adulti.

Tutti abbiamo la responsabilità di liberarci dalle sovrastrutture tossiche e di allargare le sinapsi per vedere il prossimo.

Tutti possiamo e dobbiamo fare il possibile per ritornare a quando eravamo bambini.

Riconnetterci al tempo in cui la vita si era appena affacciata ai nostri occhi e la complessità non ci faceva così paura.

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