Della battaglia

Nel numero in costante aumento di modi di dire che alcuni vorrebbero bandire per sempre, uno colpisce in maniera particolare. Si tratta dell’espressione – principalmente giornalistica, ma talvolta usata nel linguaggio comune – secondo la quale una persona muore “in seguito a una battaglia” o “dopo aver perso una battaglia” contro una malattia.

Questo ennesimo tentativo di polizia del linguaggio è più importante di altri per almeno due motivi. Il primo è che riguarda chi ha sofferto fino a perdere la vita, lasciandosi il più delle volte alle spalle persone addolorate e decise a difendere la memoria del defunto, perciò il solo discuterne richiede rispetto, una certa dose di cautela e di empatia; il secondo è che il fatto stesso che esista una discussione del genere è emblematico di un cambio netto nelle idee oggi più diffuse attorno alla condizione umana.

Colpevolizzazione

Secondo i suoi detrattori un’espressione come “perdere la battaglia con una malattia” sarebbe offensiva perché andrebbe a infierire sulla vittima, colpevolizzandola. S’insinuerebbe insomma l’idea che nel momento in cui si perde una battaglia questo accada inevitabilmente perché non ci si è impegnati abbastanza. Una convinzione del genere implica a sua volta l’idea che l’uomo abbia la possibilità di controllare ogni aspetto della sua esistenza, oltretutto per un periodo indeterminato – potenzialmente infinito – di tempo e che superare ogni problema sia in ultima analisi sempre una questione di volontà di potenza. Una posizione tanto assurda da risultare per l’appunto estremamente significativa e meritevole di una riflessione.

In un certo senso è come se anni di telefilm di scarsa fattura che ripetevano “Sii te stesso e potrai fare qualsiasi cosa” e di pubblicità ispirazionali (dal Just do it della Nike in giù) si fossero fusi con le tante altre nervature ugualmente irrealistiche dello Zeitgeist per trasformarsi gradualmente in un substrato condiviso patologicamente negazionista, non solo rispetto alla natura della vita umana, ma anche, più modestamente, nei confronti del concetto di battaglia.

L’essenza della vita

Chiunque affronti davvero una battaglia, sia essa contro una malattia, per imparare qualcosa, per riuscire in un lavoro o contro un’altra squadra in uno sport, sa che non esistono ricette sicure per la vittoria e capiterà prima o poi che anche la battaglia affrontata con il massimo dell’impegno, del talento e della tattica si risolva comunque in una sconfitta. È questa la natura della battaglia, giacché la battaglia che si può vincere con assoluta certezza non è tale. Una parte fondamentale dell’età adulta risiede proprio in quello spazio scomodissimo in cui in seguito a una dura sconfitta ci s’interroga sulla adeguatezza delle proprie azioni: il fardello dell’adulto è cioè quello di non poter mai sapere davvero se si è fatto tutto il possibile e ci si è arresi al destino oppure se qualcosa poteva essere fatto meglio conducendo così a esiti migliori. Da bambini seguiamo le indicazioni dei nostri genitori, da adulti tocca a noi l’onere dell’analisi, così come tocca sempre a noi quello, ancora più pesante, del decidere se prendere per buone le conclusioni a cui siamo giunti. Quel che è peggio, il tempo procede su un piano unico e irripetibile, non ci offre mai una seconda possibilità per risolvere lo stesso problema, ci fa semmai dono di un’esperienza che potremmo utilizzare per provare a risolvere i problemi futuri. Questo processo di valutazione, ripensamento e formulazione di nuovi tentativi per interpretare e capire il mondo è la forma più ampia e onnicomprensiva della battaglia, è l’attività principale di una vita.

La battaglia è sempre un campo di possibilità aperte, la vita un tentativo di attraversarlo indenni, il risultato non è mai garantito. Sapere tutto questo equivale a conoscere una delle regole fondamentali dello stare al mondo: chi l’interiorizza può stimare i vittoriosi ma rispetterà sempre i perdenti, soprattutto saprà che prima o poi finirà per provare entrambi i sapori e potrà al massimo ambire ad agire sulle dosi attraverso l’intelligenza, il lavoro e l’impegno. Senza per questo smettere mai di confidare nella fortuna.

Più in generale quella che può rivelarsi l’ultima battaglia non è mai anche la prima. Prima della battaglia definitiva a cui si riferisce il modo di dire, ne abbiamo cioè inevitabilmente sempre già combattute un gran numero: in realtà l’atto stesso di diventare chi siamo – diventare noi stessi – passa attraverso la battaglia. In un certo senso diventare una persona è combattere la battaglia. Ci formano le battaglie con l’ambiente che ci circonda, con gli altri, con noi stessi e con i nostri limiti, quelle che abbiamo combattuto da soli così come quelle combattute in compagnia.

Una seria pedagogia della battaglia insegna a non considerarla – se non solo molto secondariamente – nella sua accezione violenta, cruenta, guerresca, e a capire che dalla radice originaria della battaglia discende la capacità di stare al mondo, quella di adattamento, quella che ci permette di mappare e comprendere il territorio, di esprimere senso, di indicare una via alle generazioni successive. Tutto questo deriva per l’appunto dalla battaglia originale e atavica dell’uomo, la cui coscienza embrionale si è sviluppata in un ambiente determinato a riconfigurare in altri modi il valore energetico contenuto nel suo corpo. In altre parole un ambiente pronto a fare di tutto per ucciderlo. È da questa battaglia originaria che si sono formati i nostri apriori biologici, ed è esattamente con questo set di strumenti con il quale cui ci siamo evoluti nel passato che ancora oggi affrontiamo la nostra vita civile. Michel Houellebecq ha scritto in Restare vivi: «Ogni esistenza è un’espansione e uno schiacciamento (...) gli esseri si diversificano e diventano più complessi, senza perdere nulla della loro natura originaria». Dalle stesse euristiche mentali sviluppate per sfuggire alla tigre e per aggregare la tribù sono discesi gli dei, le filosofie, le idee politiche – solo per fare un esempio fra i tanti si pensi alla dialettica hegeliana poi traslata nelle molte correnti del marxismo – e in un senso più ampio (e più sorprendente) persino la scienza. La battaglia attraversa ogni cultura umana perché la vita è fatica e questa è rimasta sempre una costante. L’avvento dell’aria condizionata, delle ecografie e degli shuttle spaziali non ha ancora cambiato la sostanza del problema perché noi siamo rimasti in massima parte gli stessi animali. Nietzsche a proposito dei filosofi ha scritto: «Continuino pure a sentirsi così indipendenti uno dall’altro con la loro volontà critica o sistematica, c’è pur sempre un qualcosa, in essi, che li conduce, un qualcosa che li incalza, in un determinato ordine, l’uno dopo l’altro, appunto quella innata sistematicità e affinità dei concetti. Il loro pensare è in realtà molto meno uno scoprire che un rinnovato conoscere, un rinnovato ricordare, un procedere a ritroso e un rimpatriare in una lontana, primordiale economia complessiva dell’anima, da cui quei concetti sono germogliati una volta: in questo senso filosofare è una specie di atavismo di primissimo rango».

L’atavismo è quello della matrice, la cassetta degli attrezzi di cui l’evoluzione ci ha dotati per la battaglia.

Totale rimozione

Eppure sempre più spesso, protetti dalle forme mediate, simboliche, occulte, che la battaglia assume nella nostra società razionalizzata, guardiamo alla parola stessa con il distacco di chi si sente ormai parte di una specie diversa. Una specie irrimediabilmente pacificata, avviata verso un mondo dove il bene universale sarà il frutto scontato di un calcolo aritmetico preciso e in cui l’unico problema residuo potrebbe essere disporre di una sufficiente capacità di calcolo. Anche se, come ha ammonito René Girard, «l’idea che le credenze di tutta quanta l’umanità non siano che un’ampia mistificazione, alla quale noi saremmo pressoché i soli a sfuggire, è a dir poco prematura», viviamo immersi in una cultura di totale rimozione. Abbiamo eliminato i riti e le simbologie collettive con cui i popoli hanno cercato in ogni tempo di venire a patti con la fragilità della loro condizione, fossero essi cerimonie sciamaniche, celebrazioni misteriche, grandi religioni monoteiste o tradizioni territoriali. Tutte cose che se prese singolarmente – e alla lettera – dicono ormai ben poco all’uomo razionalizzato – che infatti non le tiene pressoché in alcun conto, se non come folklore – ma che nascondono al loro interno attraverso codici fatti di metafore, simbolismi e ritualità collettive, delle storie capaci di dialogare con l’inconscio della specie e soprattutto di ricordarci una lezione fondamentale: noi siamo la battaglia.

Nel mondo postmoderno la battaglia ovviamente continua – sarebbe impossibile cessasse – ma avanza e guadagna posizioni chi cinicamente fa dell’idea di negarla una strategia di potere. Chi cioè rifiutandone la necessità, anzi condannando il concetto stesso come sbagliato e prevaricante, non fa altro che combattere una battaglia nascosta, più subdola e pericolosa, con l’obbiettivo di instaurare un nuovo potere che attraverso la retorica spogli l’individuo delle sue prerogative più profonde. Diventa così sempre più popolare in ampi strati della popolazione l’idea che la battaglia sia una faccenda superflua, primitiva, traumatizzante. Basti pensare alle scuole degli Stati Uniti in cui i bambini giocano agli sport di squadra senza tenere il punteggio, in modo che nessuno possa sentirsi “discriminato” se perde; una situazione, quella della scuola post-moderna americana, ben descritta da The coddling of the American Mind di Jonathan Haidt, un libro che racconta l’aumento dell’ansia nei bambini e l’epidemia di suicidi fra gli adolescenti che, dopo delle infanzie ultra-protette, arrivano alla durissima competizione dentro i social network. Naturalmente questo tipo di educazione ideologizzata danneggia più di chiunque altro proprio quei bambini che la partite le perderebbero perché non viene data loro la possibilità di venire a patti con la realtà, di decidere le proprie priorità, di sviluppare un meccanismo di impegno e di raggiungere delle soddisfazioni attraverso il miglioramento individuale e collettivo.

Li si costringe invece dentro una bolla di bambagia proprio nella fase della vita in cui sarebbero flessibili a sufficienza da sviluppare in maniera istintiva quelle strategie di adattamento alla battaglia che gli permetterebbero in seguito di diventare degli adulti. Il risultato invece è che una volta cresciuti ed espulsi dalla bolla troveranno qualsiasi difficoltà del tutto intollerabile, non riuscendo così a gestirla e rimanendo eterni bambini. Peggio ancora, un atteggiamento del genere, mettendo di fatto ogni seria preparazione alla vita esclusivamente nelle mani delle famiglie, non fa che aumentare le disuguaglianze sociali creando un vantaggio strategico incolmabile a favore di quelle famiglie che forniscono ai loro figli gli strumenti mentali e psicologici per stare al mondo a discapito di quelli che invece possono fare affidamento solo sulla scuola. A questi ultimi rimarrà la magra consolazione di un vivere in un mondo profondamente ingiusto e ostile, ben poca cosa rispetto al peso dell’esclusione.

Più importante ancora, la battaglia, insieme alle storie che è in grado di ispirare, è alla base del sentimento morale: è perdendo, vincendo e studiando le battaglie combattute in ogni epoca da altri uomini che riusciamo a interiorizzare e poi a esorcizzare il male dandogli un posto del mondo – ignorarlo e basta non è infatti un’opzione concessa. È in questo modo che diamo una possibilità al bene nelle nostre vite.

Una cultura umana che neghi il ruolo centrale della battaglia – o lo celebri come semplice momento di divisione binaria vincenti/perdenti e non nella sua ben più estesa accezione esistenziale – è una cultura che si avvia al declino perché non solo non capisce più se stessa, ma perde anche la possibilità di riflettere sul meccanismo che la sostanzia e la nutre.

Quel che è peggio, è una cultura che non ha neppure capito bene che cosa sia la battaglia perché chi crede di dover giudicare o infierire sullo sconfitto oltre ad essere umanamente misero, ignora che la ruota gira e prima poi il momento arriva per tutti. La battaglia è universale: giudicare negativamente gli sconfitti è quindi prima di ogni altra cosa il segno di profonda ignoranza rispetto alle cose del mondo.

La battaglia della vita

Nel caso dell’espressione contestata, l’infingimento è anche banalmente linguistico dato che quella che i medici mettono in piedi davanti alle patologie è, da un punto di vista terapeutico, precisamente una battaglia contro una malattia che non permette il funzionamento equilibrato di un organismo. Sappiamo anche come – per quanto possa anche non risultare determinante – una predisposizione all’ottimismo da parte di un malato possa talvolta giocare un piccolo ruolo positivo. In altri casi invece persone che si abbandonano del tutto alla disperazione finiscono comunque per sopravvivere perché la terapia ha avuto la meglio o la situazione non era così grave o il corpo, al contrario della mente e al di fuori da ogni controllo cosciente, si è mostrato inaspettatamente resistente. Le possibilità sono insomma numerose e fra loro molto diverse, qualsiasi valutazione dovrebbe però essere una prerogativa esclusiva dei diretti interessati. Quando situazioni del genere si vivono dall’esterno, l’unico atteggiamento sensato è non giudicare e essere rispettosi nei confronti del sacro mistero della battaglia.

Dobbiamo cioè rimanere aperti alla molteplicità degli esiti, all’intrecciarsi indistricabile delle cause, sospendere il giudizio, provare piuttosto l’empatia dei simili. Pensare il contrario, dare la colpa alla vittima, significa vivere in uno spot pubblicitario e guardare al mondo attraverso un ottimismo cattivo – perché accusa gli altri di limiti che in realtà sono universali – un ottimismo destinato inevitabilmente ad essere prima o poi contraddetto dai fatti, visto che la lotta per la vita che interessa ogni cellula e ogni organismo complesso è sempre e inevitabilmente una battaglia a tempo.

Può darsi che esistano persone che immerse nel flusso della gigantesca rimozione contemporanea pensino davvero che si muoia con colpa, forse, più che per autentica cattiveria, per esorcizzare la minaccia e proteggere se stessi e la propria psiche in un mondo che non ha più risposte condivise di fronte all’oscurità della morte. Tuttavia per chi è malato in maniera incurabile o per le persone che hanno perso un famigliare le espressioni “combattere la battaglia” o “perdere la battaglia” – se sotto di esse si nasconde quest’idea che in fondo sia tutta una questione di volontà – possono senza dubbio risultare sgradevoli e ingiuste.

Cancellare le parole?

La domanda però è: dobbiamo prendere per buono – assolutizzandolo – un modo così sfocato di guardare alla realtà e censurare per questo motivo un’espressione che ha ancora un valore descrittivo profondo ed esistenziale? Dobbiamo cioè generalizzare il pregiudizio errato nell’interpretazione di alcuni e cancellare così un’espressione ancora in grado di parlarci della nostra condizione, se solo la prendiamo sufficientemente sul serio?

La soluzione non può essere cancellare le parole, quanto piuttosto ricordarne il significato profondo, ricordare a tutti che i nostri limiti sono molto più estesi di quanto ci piacerebbe ammettere. È importante anche perché battaglia è una parola simbolica in un tempo come il nostro dove forze autocontraddittorie non lottano per avere la meglio nel discorso, ma vogliono cancellare alla base la possibilità di discorsi diversi utilizzando la censura e limitando il dicibile a quell’angusto perimetro che è di loro gradimento. Un perimetro descritto della negazione della storia umana e dal progetto di uomo nuovo, ideologico e autocontraddittorio. Un piano dai tratti sinistramente totalitari.

Abbiamo quindi molto più bisogno di capire le parole piuttosto che di cancellarle, e attraverso di essere capire da dove veniamo per pianificare dove andremo. Vietare parole ed espressioni che descrivono la realtà solo perché piegate da alcuni a dei significati errati e arbitrari è fra le tante pessime idee che si possono avere una delle più pericolose.

Abbiamo bisogno di espressioni come “la battaglia della vita” per capire che siamo tutti legati da una comune origine e un simile destino e che nella nostra battaglia non ci può essere disonore: che la si vinca o la si perda è precisamente quello che facciamo su questa terra e quello che più di ogni altra cosa ci rende umani.

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