Nel periodo in cui stava con me, la studentessa di filosofia aveva un’altra relazione. Lo sapevo perché mi teneva informato, aveva fatto un patto di verità con me e con sé stessa: «Guarda che io non ti nasconderò niente», mi aveva detto fin da subito. Andava a letto con un suo professore.

All’epoca – avevo vent’anni – mi faceva effetto che un docente universitario approfittasse della sua posizione di potere per sfruttare sessualmente le sue studentesse; mi faceva effetto che un professionista affermato usasse il suo successo accademico come magnete seduttivo; mi faceva effetto anche che un quarantenne, qual era lui, approfittasse della sua esperienza per portarsi a letto ventenni meno esperte della vita. Mi faceva effetto tutto.

Ora che di anni ne ho quasi sessanta e ne ho viste di tutti i colori, mi fa effetto lo stesso. L’unica cosa che non mi fa più effetto è che questi comportamenti spregiudicati li avesse, se non proprio un filosofo, comunque un professore di filosofia.

Platone

«La tradizione filosofica europea consiste in una serie di note a piè di pagina a Platone»: è una frase (di Alfred North Whitehead) che è diventata famosissima. Ancora oggi, i filosofi si fondano sui dialoghi di Platone. Nei più famosi, il Fedro e il Simposio, Socrate discute con vari personaggi chiedendosi se sia meglio che un ragazzo vada a letto con un uomo adulto veramente innamorato di lui, oppure con uno che lo desidera e basta; se per un uomo sia meglio accoppiarsi con i ragazzini senza peli, facili da plagiare, oppure con quelli un po’ più grandi e abbastanza colti, che hanno una personalità già delineata.

Di questo si parla nei testi di Platone più letti e commentati dall’occidente; e in entrambi i casi l’argomento non è indifferente, perché nel trattarlo Socrate e i suoi giovani interlocutori si scambiano dichiarazioni d’amore e avances sessuali implicite o palesi. Gli attuali seguaci di Socrate si sono formati su quelle conversazioni scoperecce, la loro carriera accademica si basa su autorevoli chiacchiere arrapate.

Socrate ti invita a cena

Il professore di filosofia era sposato con figli. Veniva a Venezia una volta alla settimana, per le sue giornate di lezione. Alla sera, finiti i suoi impegni universitari, dopo le lezioni, il ricevimento studenti, le riunioni di dipartimento con i colleghi, si ritrovava solo, nel suo appartamento di docente fuori sede. Come salvare la serata? Sfogliava la rubrica telefonica e cominciava a chiamare le sue studentesse, dalla A alla Z.

La mia amica si trovava nella seconda metà dell’ordine alfabetico; quando era raggiunta dalla chiamata del professore, conosceva la situazione: una serie di compagne di studi, quelle che venivano prima di lei nell’ordine alfabetico, avevano già rifiutato l’invito. E d’altronde, anche lei certe volte gli diceva di no, «stasera non posso».

«Ma come, Socrate ti invita a cena e tu gli dici di no?», diceva il professore (giuro). Oppure: «Nietzsche ti chiede di uscire con lui e tu hai altro da fare?» (Giuro anche questo; riporto parola per parola ciò che mi raccontava la studentessa di filosofia a suo tempo).

Era una situazione nuova, per me. Avevo vent’anni, non mi era mai capitato di avere rivali in amore di un’altra generazione. Quando entravo nell’atrio del dipartimento di Lettere e Filosofia, mi trasformavo in una specie di Guidobaldo da Montiferro: al mio fianco sentivo materializzarsi una durlindana, mi veniva da mulinarla non appena avvistavo un professore, uno qualsiasi, per farmi largo e difendere il mio desiderio; ero un giovane cavaliere, avevo diritto alla gioventù, non avrei permesso a quei panzuti valvassori di sottrarmi ciò che mi spettava, volevo tagliare la testa a tutto il corpo docente.

Costi quel che costi

Perché la studentessa di filosofia era così spudorata nel raccontarmi tutto? Forse voleva farmi ingelosire? Può darsi. Oppure la sua era una scelta filosofica di radicalismo etico? Dire la verità, sempre, costi quel che costi, come pretendeva Immanuel Kant, perfino se un assassino ti chiede se stai nascondendo in casa la persona che vuole uccidere? Può darsi anche questo.

Sta di fatto che quella schiettezza innescò qualcosa di inaspettato, che all’epoca non ero in grado di prevedere: una sotterranea complicità tra me e il mio rivale in amore; complicità che si attivò attraverso di lei, come racconterò nelle prossime puntate.

Sbirulino

Qualche settimana dopo, io e la studentessa di filosofia riusciamo finalmente a trovare una stanza per fare l’amore al chiuso, su un materasso vero.

Questa volta abbiamo tutto il tempo, ci mettiamo comodi. Ci diciamo come ci piace essere toccati e leccati.

«A me piace se mi sbìruli la lingua mentre mi scuoti con la mano», le dico. Mi imbarazza molto ammetterlo (d’altronde, ho promesso di scrivere la verità), ma quarant’anni fa avevo coniato quel neologismo: “sbirulàre”, “sbìrulalo”, che, tra l’altro era anche una rivincita adulta sulle vessazioni televisive che avevo subìto nell’infanzia (Sbirulino era un terrificante personaggio delle trasmissioni per bambini).

Che soddisfazione quando la studentessa di filosofia mi diceva: «Ti faccio uno sbirulino». Accettavo con passione, sia per la proposta in sé, sia perché constatavo che quel lessico aveva attecchito in lei. Non le stavo chiedendo nulla di speciale; quel modo di dare piacere al pene è banalissimo: nel nostro secolo lo si può vedere in milioni di video in rete. Non ci voleva un diploma in fisioterapia per arrivarci. Eppure, negli anni Ottanta del Novecento, per una ragazza curiosa del mondo (ma non al punto di affittarsi una videocassetta porno), i modi di attingere a certe istruzioni pratiche erano: o un’amica più scafata e disposta a condividere i propri trucchetti, o l’esperienza sul campo.

La studentessa di filosofia condusse queste prime sperimentazioni empiriche sul mio pene con grande dedizione e ottimi risultati; provocando conseguenze impreviste, cioè il colpo di scena a cui accennavo prima e che però, visto quanto mi sono dilungato, racconterò nel prossimo capitolo che la riguarda.

Ringrazia Tommaso

Un po’ di tempo dopo, sempre a letto, la studentessa di filosofia mi dice che il suo docente ci tiene a farmi sapere che ha apprezzato tanto i miei servigi.

«Quali servigi? Riguardo a cosa?»

«Perché mi hai insegnato a baciarti qui», mi dice lei, che dice la verità ma non usa mai termini espliciti, indicando la punta del pene.

Era successo questo: la studentessa aveva messo in pratica le mie istruzioni anche sul pene del suo professore, sbirulandoglielo. Lui ne era rimasto deliziato.

A quanto pare, nessuna donna, al di là delle solite suzioni, gli aveva mai fatto alcunché di simile (oggi, come ho già detto, mi sembra una banalità; ma all’epoca, a vent’anni, mi inorgoglì l’idea che un quarantenne, per di più professore universitario, trovasse ingegnosa la mia inventiva sessuale al punto da farmi i complimenti; in particolare, ero orgoglioso della spontaneità sincera con cui tali complimenti proruppero da lui, come si vedrà fra poco).

Lui si era accorto della differenza rispetto alle prime volte che la studentessa gli aveva vezzeggiato il pene in bocca, e le aveva domandato cosa fosse successo, come lo avesse imparato. Lei, che anche a lui diceva sempre la verità, gli disse che glielo avevo insegnato io. E il professore, negli istanti dell’orgasmo (lo giuro; me lo raccontò lei, che non mi mentiva), le aveva detto: «Ringrazia tanto Tommaso!»

Nella foga aveva sbagliato il mio nome (il professore non mi conosceva, la studentessa mi aveva nominato di passaggio); ma mi faceva impressione essere invocato, e con quale gratitudine, dal mio rivale, nel momento dell’eiaculazione.

A quel punto, si poteva dire che fossimo ancora rivali? Fra noi si era fatto strada questo cunicolo spirituale che ci univa, uno scambio indiretto di cortesie cavalleresche. Che però rimase sottaciuto, a distanza.

C’è un epilogo, a tutto ciò. Tanti anni dopo, quando ormai la studentessa l’avevo persa di vista (credo fosse tornata a vivere nella sua città), incontrai il professore in uno degli innumerevoli incontri librari che si fanno in giro. Mi sono presentato, i nostri corpi si sono avvicinati per la prima volta, l’ho toccato stringendogli la mano, senza fare il minimo accenno all’università dei miei studi, tantomeno alla studentessa che ci aveva accomunati. Avrei dovuto essere più ardimentoso. Chissà cosa sarebbe successo, che effetto ci avrebbe fatto vuotare il sacco, a più di trent’anni di distanza? Scoprirsi contemporaneamente avversari e complici, rivali e amici, soci compartecipi della stessa bocca.

Vaginismo

La studentessa di filosofia era una vaginista. Non era seguace di una setta; il suo era un disturbo. Soffriva di vaginismo, che in medicina viene definito così: “una condizione para-fisiologica in cui la paziente induce in via del tutto involontaria una contrazione riflessa della muscolatura attorno alla vagina, impedendone la penetrazione da parte di un corpo esterno”.

Nei primi tempi, ogni volta che facevamo l’amore, l’inguine le si induriva come un sasso. Era seccante anche per lei, perché aveva una gran voglia di accoppiarsi con me; avevamo vent’anni o giù di lì, tutti e due non vedevamo l’ora di farlo, dopo settimane di desiderio e di astinenza; infatti non era stato facile trovare una stanza tutta per noi, in una casa senza altre studentesse coinquiline, che ci era stata prestata da amici.

Avevo un bel riempirla di carezze e baci, dedicarmi alla sua vagina con la lingua, le labbra, le dita, le palpebre (sì, provai anche con una palpebra, sfarfallandole delicatamente la clitoride con le ciglia), le sopracciglia (la solleticavo aggrottando ritmicamente la fronte), un alluce, uno zigomo, un tallone, un orecchio, un gomito. Le ho provate tutte: facendo il sentimentalone, l’amicone, lo sgobbone, l’istrione, il lumacone, il gingillone, il centurione.

Non c’era verso: la sua vagina era vaginista, e il suo vaginismo era estremista, fondamentalista radicale; tutto il suo plesso solare diventava un ciottolo. Sbuffavo di fatica, di disappunto, ma siccome sono un tipo che anche nel cuore delle emozioni più critiche trova sempre qualche motivo di riflessione, assistevo affascinato all’antagonismo che si innescava tra la studentessa di filosofia e la sua vagina.

«Ti prego, cricetina, ti scongiuro, sciogliti», la implorava lei, rivolgendosi alla sua vagina; provava a lusingarla, la accarezzava con le parole, pazientava, si spazientiva, sbottava: «Schiòdati, troia bigotta!», inveiva. «Puttana di una suora, smòllati!»

Come mai la studentessa “induceva in via del tutto involontaria” quella contrazione? Se non era sua, la volontà, di chi era? Chi aveva stabilito di non farmi entrare in lei? La serratura pubica era causata dal disagio che provava nell’accoppiarsi in condizioni scomode, in case non sue, prestate per poche ore da qualche amica?

Come scoprimmo insieme, non era nemmeno quello il motivo.

Il cappotto in camera

Nel giro di pochi mesi, infatti, la situazione cambiò: la studentessa di filosofia aveva trovato un piccolo appartamento dove abitare da sola, dopo quello che aveva condiviso con altre studentesse. Finalmente avevamo una stanza dove accoppiarci con tranquillità. Ma il suo vaginismo non cedeva. Anzi, era sempre più ostinato.

Eppure potevamo prenderci tutto il tempo, fare le cose con calma, senza assilli. Mi colpiva solo un fatto: quando entravo in casa sua, lei non mi lasciava mai appendere il cappotto all’ingresso; lo prendeva e lo portava in camera da letto, appoggiandolo su una sedia, e quando mi spogliavo insisteva perché io facessi altrettanto con pantaloni, maglione, camicia e biancheria, mettendoli sulla stessa sedia, sopra il cappotto.

Confinava tutti i miei indumenti nello stesso posto. Esprimeva una strana mania di ordine che, per il resto, non corrispondeva al suo carattere. Non riuscivo a spiegarmelo. Ma tutto risulterà chiaro nella prossima puntata.

Il terrazzino

Una sera, mentre io e la studentessa di filosofia siamo a letto cercando di scardinare il suo vaginismo, verso mezzanotte il campanello suona. Lei scatta in piedi e nel parossismo più frenetico prende i miei vestiti buttati sulla sedia accanto al letto, li appallottola e apre la porta-finestra che dà su un terrazzino.

Sono nudo. Vengo avvolto da una folata di aria gelida.

«Le scarpe, – mi dice lei, – tu prendi le scarpe e le calze! Subito!» Senza aggiungere altro, esce così com’è sul terrazzino, nuda anche lei, e butta i miei vestiti di lato, oltre la balaustra. «Scavalca, scavalca! – mi dice, – è tutto a posto. Sono d’accordo con la vicina», e immediatamente dopo rientra nella stanza, chiude la porta-finestra e abbassa la tapparella, lasciandomi chiuso fuori.

Tutto questo sarà durato non più di quindici secondi. Il terrazzino dà su un piccolo cortile, sul retro della casa. Mi guardo intorno, dall’alto. È quasi mezzanotte, è buio. Un po’ di chiarore trabocca da qualche rada finestra illuminata. Siamo al terzo piano, a una decina di metri da terra. I miei vestiti non li ha buttati giù in cortile. Accanto al terrazzino dove mi trovo, ce n’è un altro, davvero vicinissimo, a pochi centimetri di distanza.

Mi infilo le scarpe e le calze, e poi, nudo, mi sporgo dalla balaustra; con facilità riesco a scavalcarla, finendo nel terrazzino della vicina. I miei vestiti sono lì. Fa freddo, ma preferirei rivestirmi al chiuso, per non dare spettacolo, casomai ci fosse qualcuno che mi sta guardando da qualche finestra. Così tiro su il cappotto, me lo avvolgo intorno al corpo alla buona, e raccolgo il resto dei vestiti in un fagotto.

La fase successiva è quella più critica. Metto la mano sulla maniglia, con un po’ di preoccupazione. Se è chiusa, che faccio? Resto qui fuori tutta la notte, al freddo? Afferro bene la maniglia e giro il polso: la maniglia si abbassa ruotando, la porta-finestra non fa resistenza, non è chiusa a chiave. Meno male! Entro in una stanza buia, chiudo la porta-finestra, rimango in silenzio per un po’, immobile. Comincio a rivestirmi con calma, a luce spenta, facendo meno rumore che posso. Mi rivesto, appoggio l’orecchio al muro e al di là della parete sento il riverbero di una voce scura, ormonale, che dialoga con quella della studentessa di filosofia. Non riesco a distinguere le parole che si dicono.

Non può essere il suo amante professore, conosco la sua voce, non è così profonda. E allora chi è?

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[Continua in La verità e la biro di Tiziano Scarpa, Einaudi editore, 2023]

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