Il nostro tempo è segnato dal ritorno della guerra in Europa. Avevamo già visto gli orrori della guerra nei Balcani, ma l’aggressione all’Ucraina rappresenta un tragico salto di qualità: una grande guerra che coinvolge una potenza nucleare come la Russia.

Siamo tutti minacciati dall’escalation e siamo piombati in una notte ancora più scura di quella della pandemia: un conflitto cruento e terribile proprio nelle “terre di sangue” – per utilizzare il titolo del libro di Timothy Snyder – in cui fu combattuta la Seconda guerra mondiale. Come siamo giunti in tale situazione? Cosa significa riflettere sul ruolo dell’Europa come terra di pace e prosperità, secondo la promessa che si erano scambiati i leader europei dopo la Seconda guerra mondiale al momento della fondazione del processo che ha portato fino all’Unione?

Le forze che riemergono

È come se l’attuale fase declinante della globalizzazione si sia trasformata in una specie di Jurassic Park, dove riemergono dal fondo della storia forze brutali e imprevedibili delle quali si era persa memoria.

Con la grande guerra qualcosa di antico è riemerso alla superficie della storia, rendendola nuovamente tragica. Il “nuovo ordine mondiale” promesso all’inizio degli anni Novanta non si è realizzato e la pace – frutto della interconnessione tra economie – si è dimostrata una chimera.

In questi anni dal punto di vista economico abbiamo visto accrescersi le disuguaglianze: la globalizzazione non ha mantenuto le sue promesse ma ha creato un mondo estremamente competitivo. Dal punto di vista politico le democrazie hanno perso smalto e reputazione: al loro posto si sono andati affermando modelli alternativi, autoritari e iper-liberisti assieme.

Promesse non mantenute

Il sogno europeo che doveva proteggerci dal caos globale non ha mantenuto le sue promesse e gli europei si sentono più deboli che in passato. L’Europa democratica si vede minacciata ma anche gli altri continenti reagiscono con difficoltà alla nuova situazione globale creata dalla guerra.

In Asia, che ha vissuto gli effetti benefici della globalizzazione economica divenendo la fabbrica del mondo (in particolare la Cina), si stanno rarefacendo le connessioni commerciali. In Africa c’è una grave crisi alimentare e agricola grave dovuta agli aumenti dei prezzi ma anche alla scarsità dei fertilizzanti e del grano.

In tale situazione instabile si moltiplicano i regimi autoritari e i golpe militari (Guinea Conakry, Mali, Burkina Faso, Niger, Gabon e Ciad) ma anche le guerre civili (con i tigrini in Etiopia e in Sudan), mentre parti del continente sono funestate dall’aggressione jihadista (come avviene nel Sahel o in nord Mozambico), che approfitta dei vuoti di potere.

In America latina crescono flussi migratori su uno sfondo di violenza diffusa, dove si moltiplicano criminalità e gang giovanili e gli stati sembrano impotenti. Il combinato disposto tra disuguaglianze crescenti e crisi identitarie talvolta violente, ha fatto rinascere il populismo nazionalista un po’ dovunque.

Paura e insicurezza

Com’è noto i sintomi generali sono paura e insicurezza: si fanno muri, si cerca di fare da sé, ci si lamenta vittimisticamente della perdita di potere e prestigio. Il fenomeno è globale. Basta alzare lo sguardo per vedere che una sindrome simile attanaglia anche la Russia: la sua aggressività attuale è figlia di decenni di rancore, ricostruzione storica manipolata e vittimistica sul destino del popolo russo considerato sempre sul punto di soccombere a causa dei tanti presunti nemici che lo circonderebbero.

Non diversamente pensano alcuni nell’universo arabo-islamico: secondo i nuovi estremisti arabo-musulmani odierni (salafiti, fratelli musulmani e/o jihadisti) l’aggressività degli stili di vita occidentali (europei, moderni, americani o laici che siano) metterebbe in crisi l’identità stessa arabo-islamica e alla fine ogni indipendenza. Da qui la paura di perdere le radici e le reazioni bellicose.

Medesimo discorso si può fare in altri contesti, ad esempio nel sud est Asia. Davanti alla crisi della competitività neoliberista, tutti temono di scomparire, di perdersi nel mare della globalizzazione, tutti sono preda dell’ossessione identitaria.

L’Europa stessa, che dovrebbe essere uno spazio di pace e di diritti, è influenzata da sentimenti contradditori tra la costruzione comune e il ritirarsi dietro le proprie frontiere, tra il senso di protezione e la paura di perdere l’acquisito, tra unione e separazione.

Alcuni stati membri sono preda di una sindrome identitaria aggressiva e divisiva, che mette in crisi la qualità della democrazia in tema di giustizia e di libertà. Paradossalmente per molti la guerra in Ucraina diviene – fittiziamente – un’esperienza chiarificatrice: fine della globalizzazione (troppo complicata e ambigua) e ritorno alla sfida tra blocchi e influenze.

Mostri fuori controllo

Quello in guerra pare un mondo più semplice da capire, che si crede di comprendere meglio. Ma non è così. Come si sa, paura e vittimismo fanno nascere mostri che poi nessuno controlla, primo fra tutti la guerra stessa, oltre che l’assillo per il fenomeno migratorio legato alla paura di un islam aggressivo che vorrebbe sostituirsi alle nostre culture originarie. Entrambi i fenomeni vengono percepiti da alcuni come segnali di declino a cui opporsi.

Questa è la radice del ritorno della guerra in Europa: pensieri e fenomeni che hanno contribuito ad aumentare il tasso di violenza e di aggressività in questi primi due decenni del XXI° secolo.

L’Ue aveva pur contribuito a fermare la crisi del 2008 in Georgia e quella del 2014 nel Donbass e Crimea ma oggi siamo di fronte alle conseguenze del fallimento degli accordi di Minsk voluti e negoziati dall’Europa. Perché non hanno funzionato? Perché si è perduta la pace? Si tratta di un processo cominciato da tempo e per capirlo occorre alzare lo sguardo oltre l’Europa stessa.

Guardiamo ad altri conflitti: alla Siria, dal 2011 senza nessun vero coinvolgimento dell’opinione europea. Si parla di 400.000 morti e di sei milioni di esuli sulle strade del mondo. Ce ne rammentiamo solo quando arrivano a toccare le nostre coste. La guerra siriana precede e prepara quella in Ucraina, almeno per come i russi l’hanno combattuta: brutale guerra totale.

Perché per la Siria non c’è stata quella mobilitazione per la pace che aveva radunato milioni di persone nel 2003 contro la guerra del Golfo? A inizio secolo, nonostante i terribili attentati dell’11 settembre 2001 e la diffusione della teoria dello scontro di civiltà e di religione, era ancora forte la coscienza dell’orrore della guerra, maturata da più di una generazione, che sapeva come fare la differenza con la pace e capirne il valore.

Guerra senza fine

In seguito c’è stata come un assuefazione alle ragioni del conflitto, considerato come un mezzo lecito per risolvere le contese. Le parole di papa Francesco ci risvegliano da questa logica: «La guerra – egli scrive in maniera sorprendente – è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male».

In Ucraina la guerra si sta svolgendo come se non ci dovesse essere futuro su quelle terre, come se si dovesse distruggere la possibilità stessa della vita. È una guerra totale e senza fine. A livello globale il conflitto non si ferma più, magari si sposta ma non si arresta.

Uno dei problemi è che con il passare delle generazioni e lo spegnersi dei testimoni, si è riabilitata la guerra come strumento di soluzione delle contese. In Afghanistan, Iraq, Libia, nonostante i risultati negativi di quelle operazioni militari, è avvenuta la rivalutazione della guerra.

È prevalsa un’immagine tecnologica, lontana dalla guerra sporca nelle trincee della Prima guerra mondiale o in Vietnam. Ma ora vediamo che in Ucraina la guerra è molto simile a quelle di una volta, e ci rendiamo conto di dover riacquistare con urgenza il senso della pace. 

© Riproduzione riservata