La questione meridionale. Campeggiava altera in ogni biblioteca italiana, da nord a sud, tra le classi popolari, fra i ceti medio-borghesi e anche nelle boiserie di rango. Era l’argomento centrale di ogni discussione politica, il tema economico per eccellenza, il cruccio della sinistra social-comunista e un attento avamposto della classe dirigente democristiana che non lesinava attenzioni e politiche pubbliche pur non risolutive. Una lettura obbligata, per capire, uno scritto obbligatorio per chi si apprestasse a calcare le scene politiche, le redazioni giornalistiche, la vita pubblica.

Non v’era discussione, dibattito, conferenza, in cui non apparisse citato direttamente, evocato, criticato o elogiato, utilizzato quale incipit, grimaldello retorico, sfoggio. Anche nelle piazze e nelle sezioni di partito, la questione meridionale era implicitamente ed esplicitamente LA quistione, con la I. Un testo e un tema a volte trasformati in una specie di passepartout, per mostrare di essere del giro giusto, per non essere fuori luogo e fuori tema, perché davvero la Questione era egemonica culturalmente e politicamente. Senza soluzione di continuità, da nord a sud, dall’estrema destra all’estrema sinistra. Con il passare degli anni e la crescente ubriacatura per il libero mercato, per l’adesione acritica alla globalizzazione, il testo è divenuto anche feticcio e rapidamente poi non più sfogliato. Derubricato a lettura vintage, passatista, antica, se non vecchia, inutile, o ideologica, nemica del nuovo corso modernista, anche a sinistra. Soprattutto a sinistra.

Un testo scomparso

Il testo gramsciano è scomparso da decenni dalle letture del personale politico, è stato espulso dalle scuole quasi fosse “divisivo”, e considerato un contributo vetusto, da lotta politica del Novecento, residuo e residuale, mentre nel mondo gli “studi gramsciani” proliferano. Agli studenti pre-1989 si assegnavano temi sulla divisione del Paese, sui ritardi del Sud, sui rimedi, le cause, le problematiche. Oggi si rincorre il merito, senza partire dai bisogni, per riprendere Claudio Martelli. Non si ri-legge Gramsci perché il Sud è stato mortificato, il Nord ha vinto e quindi ha espunto la divisione del Paese dall’agenda pubblica, e perché pur con varia intensità la classe politica ha introiettato il dato, soltanto fattuale, ma con il rischio che diventi anche formale, della separazione tra Settentrione e Meridione.

Due Italie, divise e inconciliabili, mentre l’intero Stivale vivrà solo se unito e solidale. Dunque, meglio non parlarne, non scriverne, non fare leggere agli studenti, ai giovani, ai sindaci, di argomenti che turbino le loro coscienze. Immaginare oggi, con il tentativo di riscrittura della storia patria messo in campo dalla destra neofascista, cosa patirebbe un docente delle scuole medie che impartisse tale lettura, fa rabbrividire.

Una frattura da sanare, sanabile

«La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo più di mille anni», scriveva Gramsci. Se ne parla poco e comunque senza incidere sulle scelte politiche, sulle politiche pubbliche, mentre la Questione permane e persiste. Sotto spoglie identiche e mutanti attori, l’arretratezza del Sud rimane. Anche se si tratta di diversi Sud, della spoliazione delle aree interne, dei piccoli comuni spina dorsale disossata da politiche centraliste e città centriche, e quindi nordiste.

Al netto di esperienze e aree meridionali che mostrano indicatori socio-economici esemplari e al passo con il resto dell’Italia. I dati sono implacabili, come fotografato e analizzato ogni anno da Istat, Svimez e altri autorevoli istituti di ricerca e pubblicazioni di economisti e scienziati sociali. Migrazione a senso unico sud-nord, desertificazione sociale, prosciugamento dei servizi essenziali, destrutturazione demografica e abbandono di avamposti pubblici.

Mentre servirebbero azioni speciali, almeno per un lustro con risorse maggiori investite nel Sud: strumenti finanziari e umani. E invece si persevera nel processo di depauperamento, dalle scuole alle poste, dalle strade ai presidi sanitari, dagli investimenti pubblici alle risorse private. Un costante disfacimento di cui non si intravede l’arresto.

Nuovo meridionalismo, nuovo pensiero meridiano

Ovviamente la soluzione non risiede nel piagnisteo, nel ribellismo, nelle rivendicazioni urlate, ovvero nella rievocazione di presunti fasti di sedicenti movimenti (neo) borbonici – che Gramsci ovviamente avrebbe detestato, «le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato». Sebbene tali oscillazioni concettuali siano deprecabili e rischino di assolvere i responsabili contemporanei, in taluni passaggi appare evidente un chiaro elemento di sottrazione di risorse che ricorda una sorta di neo-colonialismo («colonie di sfruttamento» per Gramsci), in cui le risorse primarie della periferia sono sottratte con poco plusvalore per i produttori e indirizzate nelle aree industriali già ricche che le trasformano e inondano i mercati del Mezzogiorno.

Una persistente crisi determinata da diversi e concomitanti fattori cui ha contribuito una significativa parte della classe dirigente meridionale che reca una grave e storica responsabilità. Anticipando peana e permali, ovviamente si intende il risultato nel suo complesso, al netto di nobili intendi, di casi eccezionali ed eccellenti pur presenti. È però evidente che il livello medio, e mediano, degli esponenti politici è molto peggiorato dagli anni Ottanta almeno con grave nocumento per i cittadini e i territori, e anche per le istituzioni regionali governate non sempre secondo criteri di efficacia ed efficienza.

Meno cacicchi, Pnrr e progetto di sviluppo

In tutto questo sfacelo i partiti languono, oscillando tra rassegnazione e complicità. I gruppi dirigenti locali offrono fedeltà alle direzioni nazionali le quali in cambio trasudano spesso indulgenza e disinteresse. La spirale sfiducia, frustrazione, mancanza di ricambio e di qualità alimenta le turbine del populismo e ingrossa le fila dell’astensione se non dell’apatia.

Migrazioni e campi fertili per le organizzazioni criminali, risorse che rischiano di finire in mano a mafie, speculatori e sfruttatori. L’occasione propizia per rilanciare il Sud, per tentare di mitigare le distanze oggi crescenti è giunto con una crisi, come sovente accade. Lo strumento adottato dalla commissione europea, il Pnrr (Gianfranco Viesti, Riuscirà il Pnrr a rilanciare l'Italia? – Donzelli editore), è un’opportunità rara e imperdibile, irrinunciabile, pur non panacea. Un piano Marshall per il Sud Europa, ma per l’Italia e il Sud in particolare. Il presidente Mario Draghi riuscì a raggiungere un equilibrio ragionevole stante le forze parlamentari in campo, ma il 40% destinato al Sud è ancora troppo poco e sarebbe stato utile arrivare almeno al 45%.

Ad oggi, dati Openpolis, «il vincolo di destinazione del 40% delle risorse Pnrr al Sud risulta mediamente rispettato», ma le recenti fibrillazioni e le incertezze del ministro al ramo appaiono esiziali per una reale prospettiva di cambio di paradigma. Ma non è colpa di Cavour né solo dei famelici gruppi industriali del nord, quanto di una debole prospettiva meridionalista. Mancano alle viste Croce o De Sanctis, Spaventa o Labriola, Benedetto Croce o Giustino Fortunato, Sturzo, fino a Cassano.

La destra neofascista contro il Sud. Anzi neutra

Il governo Meloni non ha tra le sue priorità il Sud, e non bastano le scampagnate del Ministro alla mistificazione storica che propone opere faraoniche e fatue, perché non conosce il territorio avendolo dileggiato per decenni. Il dicastero alle Politiche per il Mare e per il Sud appare poi quasi un portafoglio turistico, una scempiaggine esotica e residuale, senza capacità di incidere né di decidere. Ci vorrebbe una vera azione di coesione territoriale per ridurre a cifre fisiologiche l’abisso della disuguaglianza di risorse, opportunità e infrastrutture, ossia avere una sola Repubblica. Unita. La Germania ci ha provato in forma massiccia e, sebbene sia ancora lontana dall’azzeramento del gap (fonte Lavoce), c’è stato un forte recupero proprio perché la distanza tra le geografie è stata posta al centro, al vertice delle politiche pubbliche.

Si tratta del ritiro dello Stato, la sua resa, perché la classe dirigente considera il Sud, irrimediabile, irredimibile, perduto, una causa inutile, un posto dove non investire risorse di alcun tipo. Tanto meno politiche.

Il Sud catturato dal Nord e non solo dalla Lega

La Questione meridionale è stata catturata, il suo significato snaturato, la sua valenza deturpata e il suo impatto quasi azzerato. Rimpiazzata dalla questione settentrionale come in un classico esempio di apartheid razziale e concettuale. All’inizio degli anni Ottanta comparve la Questione settentrionale, sventolata e monetizzata dalla Lega Nord (l’Autonomia è un modo surrettizio della mai rinnegata secessione), ma maneggiata con troppa cura e indulgenza anche da intellettuali, ceto politico e sinistra. Il Sud era, ed è, considerato troppo complicato, un ginepraio di cacicchi, connivenze, arretratezze da cui è meglio stare lontani. Ma in realtà, quel complesso di risorse e ricchezze, problemi e nefandezze, rischia di tornare sul tavolo nazionale più pesante di prima. Il Sud è una grande opportunità, un grande sogno per l’Italia. «Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera ed interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese, e non di particolari tendenze politiche o regionali», sempre Gramsci.

Il divario che appare incolmabile non sarebbe immane se il Sud diventasse nuovamente centrale nel pensiero e nell’azione politica. Ricostruire l’egemonia. Rimettiamo negli scaffali e sulle scrivanie una bella copia della Questione meridionale.

© Riproduzione riservata