Il testo del disegno di legge Zan, in discussione al Senato, equipara l’identità di genere alle altre condizioni personali delle vittime di fenomeni discriminatori: ciò ha diviso il mondo femminista, poiché si è fatta progressivamente strada l’idea che l’utilizzo di questa espressione nella norma possa annullare il dato biologico e comportare un'asserita cancellazione e a un appiattimento della differenza fra i sessi, finendo in qualche modo per pregiudicare alcuni diritti civili e sociali faticosamente conquistati dalle donne in decenni di battaglie.

Non è così. Queste preoccupazioni non sono fondate dal punto di vista giuridico. Il sesso, il genere e l’identità di genere sono nozioni diverse, che fanno riferimento a dimensioni differenti dell’identità personale e dell’esperienza individuale delle persone.

Il sesso è il complesso delle caratteristiche anatomiche e fisiologiche che contraddistinguono i maschi dalle femmine ed è una nozione applicabile a gran parte delle specie viventi.

Il genere connota invece qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse all’essere uomo o donna. Si tratta, quindi, dell’adesione o meno a quelle modalità di comportamento e di rappresentazione di sé che vengono convenzionalmente legate a un sesso, ovvero a un altro. È un concetto che già Simone de Beauvoir pose al centro della sua riflessione e che aveva sintetizzato con la nota formula «on ne naît pas femme: on le devient»: essere donna non è un dato naturale, ma il risultato di una storia collettiva e individuale composta da modelli di condotta ricorrenti e convenzionali legati alla femminilità.

L’identità di genere si riferisce, infine, alla percezione che ciascuna persona ha di sé come uomo o donna, che può o meno avere corrispondenza con il sesso attribuito alla nascita. Si declina, quindi, nella consapevolezza individuale e soggettiva della difformità o conformità tra la propria dimensione pubblica ed esteriore e quella più intima e interiore. Elaborando questi concetti, Judith Butler è giunta a decostruire la presunzione di poter assegnare a ciascuna persona un’identità sulla base del sesso biologico.

Le critiche di alcune rappresentanti del mondo femminista, che muovono dalle considerazioni sopra sinteticamente riportate e riferite soprattutto all’utilizzo del termine “identità di genere”, sono difficilmente comprensibili dal punto di vista giuridico, perché questa nozione non appare per la prima volta nel nostro ordinamento con la proposta di legge Zan, ma è contenuta in numerosi atti normativi e pronunce giurisprudenziali del sistema giuridico italiano ed europeo.

L’espressione ha per la prima volta fatto ingresso in un testo normativo con la Direttiva del 2011, sull’attribuzione della qualifica di «rifugiato», che fa espressamente riferimento al concetto di identità di genere, nella trattazione degli aspetti che possono costituire motivi di persecuzione. Inoltre, il termine è contenuto anche nella Direttiva del 2012, che istituisce disposizioni minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, nonché nella Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

Inoltre, la Corte Costituzionale ha riconosciuto con la sentenza 221 del 2015 il diritto all’identità di genere quale «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona». Questo principio è stato poi ribadito nella sentenza 180 del 2017, che conferma che «l'aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca senz'altro espressione del diritto al riconoscimento dell'identità di genere».

Non si tratta certo, quindi, di una nozione nuova dal punto di vista del diritto: il riconoscimento giuridico di questa categoria semantica è già da tempo avvenuto.

Alcune femministe vorrebbero sostituire il concetto di identità di genere con quello di transessualismo che, però, giuridicamente si riferisce al momento successivo alla conclusione del percorso di transizione e ha, quindi, una portata molto più limitata che escluderebbe senza motivo alcune vittime d’odio dalla tutela. È, tra l’altro, difficile ipotizzare che l’autore di una condotta d’odio richieda i documenti di identità alla potenziale vittima prima di commettere il reato. Il richiamo a questo concetto all’interno della normativa penale specialistica di cui al ddl Zan, quindi, non è opportuno in un’ottica di promozione dell’uguaglianza e della pari dignità di ogni persona.

L’idea di genere, che dà importanza allo spazio di autodeterminazione individuale in una prospettiva di rifiuto degli stereotipi, e l’idea di identità di genere, che valorizza la fluidità delle appartenenze, coesistono e non si pongono in contrasto con quella di sesso, che mette invece in primo piano la dimensione biologica. Il riconoscimento giuridico di ulteriori sfere della personalità e dell’identità personale (nella sua portata sessuale) non implica la cancellazione di quegli aspetti che sono già protetti dal diritto.

In occasione della discussione alla Camera della proposta di legge Zan, alcune rappresentanti di certe associazioni femministe hanno avanzato questioni che vengono riproposte oggi, dopo la calendarizzazione del ddl in Commissione al Senato, con lo stesso contenuto e che riguardano l’asserita autorizzazione al cambiamento di sesso che, in caso di approvazione della legge potrebbe ottenersi con una semplice presunta autodichiarazione sulla base dell’inclinazione del momento. Queste considerazioni sono false. Il disegno Zan non modifica in alcun modo sulla legge 164 del 1982 che (sebbene sia una legge datata e non del tutto adeguata alle esigenze delle persone trans e che sarebbe quindi opportuno modificare) continuerebbe a regolare la rettificazione anagrafica del sesso.

La resistenza di quelle femministe radicali trans escludenti (c.d. femministe TERF - Trans Exclusionary Radical Femminists), contrarie alla legge per il timore di un arretramento dal punto di vista dell’equità e dell’uguaglianza sostanziale, è quindi priva di fondamento giuridico. Va precisato, tra l’altro, che le femministe che sostengono queste argomentazioni godono di una sovrarappresentazione rispetto alla loro effettiva diffusione nei movimenti per i diritti delle donne e delle persone Lgbti, legata anche alla comunanza di obiettivi, in questa circostanza, rispetto al mondo del conservatorismo cattolico di destra.

Queste nozioni, all’interno di una norma penale di protezione, riguardano le modalità con cui gli autori e le autrici delle condotte definiscono le vittime d’odio e non come le stesse si qualificano e si percepiscono. L’idea è, infatti, quella di rendere il ventaglio di tutele il più ampio possibile, proteggendo tutti gli aspetti dell’identità personale nella sua dimensione sessuale. Il disegno di legge Zan riguarda il movente d’odio e colpisce quindi le ragioni specifiche alla base di una condotta e correlate alle condizioni personali della vittima.

I discorsi d’odio possono ricollegarsi a matrici che esulano e non si esauriscono nelle caratteristiche anatomiche e biologiche. Se la legge non prevedesse l’estensione della norma anche al genere e all’identità di genere si verificherebbe un vuoto normativo nell’ordinamento che priverebbe di copertura, dal punto di vista della repressione penale, alcuni fenomeni d’odio.

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