Il Comitato permanente per i diritti umani nel mondo, istituito presso la commissione Esteri in merito all’impegno dell’Italia nella comunità internazionale per la promozione e tutela dei diritti umani e contro le discriminazioni, ha svolto la settimana scorsa l'audizione della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Dunja Mijatović.

All’incontro è stato chiamato a intervenire il Comitato per il diritto al soccorso che si è costituito un anno fa per ribadire il principio di solidarietà sancito dal diritto internazionale e nazionale del mare, non dovrebbe esistere.

Non ci sarebbe infatti bisogno di ribadire i fondamenti della civiltà giuridica, se i governi non li avessero traditi, né ci sarebbe bisogno delle navi Ong per salvare le persone in mare se a provvedere, senza silenzi e senza remore, fossero le istituzioni: ciò non è accaduto, e si è arrivati ai porti chiusi, al divieto di approdo opposto alle stesse navi militari, all’uso esasperato delle ispezioni e alle ingiuste detenzioni cui le navi dei volontari sono state sottoposte per impedire loro la ripartenza verso nuove missioni.

Salvare è un obbligo, offuscato però da una durevole realpolitik che nei migranti ha additato il pericolo: è per questo che il Comitato ha preferito appellarsi al diritto di salvare, oltre che al dovere di farlo. È un diritto, infatti, sentirsi uomini.

Serve ancora

Cessate alcune asprezze nei confronti dei volontari soccorritori, rimangono le ragioni di esistere del Comitato, in particolare la necessità di mantenere aperto un rapporto di collaborazione fra le istituzioni statali e il volontariato, così come accade in tutte le emergenze.

Resta, soprattutto, il preoccupante sistema di cooperazione dei soccorsi nel canale di Sicilia che sembra mirato a stabilire più di ogni altra cosa quali stati possano sentirsi esonerati dall’intervento, mentre la norma internazionale stabilisce che tutti sono chiamati al soccorso, se in grado di farlo, come responsabili o cooperanti, fino all’efficace sua soluzione. Questo scombinato sistema fa perno soprattutto sugli accordi, stipulati nel 2017 e ancora oggi rinnovati, dal governo italiano con la Libia, responsabile, a detta di organismi Onu, agenzie umanitarie, tribunali e molta stampa, di esercitare violenza e torture sui fuggitivi di varia nazionalità, riportati da una cosiddetta guardia costiera nei centri di detenzione libica: già oltre 28 mila persone nel corso di quest’anno.
In applicazione di questi accordi, l’Italia ha offerto finanziamenti, motovedette, addestramento e, ancora in questi giorni, ha trasferito a Tripoli, con nave San Giorgio della Marina Militare, apparati di controllo marittimo.

Questo è il tempo in cui i governi ergono muri ai propri confini pur sapendo che i muri non soltanto fermano le persone, ma spesso le uccidono. Tanto più in mare, dove si fanno muro il mancato soccorso, le operazioni che dovrebbero essere di salvataggio e si risolvono poi in attività  anti-immigratoria, e la sorveglianza marittima che Frontex, sedicente guardia costiera europea, conduce senza navi ma con i droni, usati per osservare e segnalare alle milizie libiche la posizione dei barconi in fuga.

Un muro insuperabile è poi anche il silenzio, non soltanto quello delle navi che non accolgono la richiesta di soccorso per non incorrere nelle ritorsioni e nei ritardi, ma anche quello che le fonti istituzionali oppongono alla stampa, disattendendo talvolta le proprie regole in materia di comunicazione.

Chi è in mare va salvato e basta, la politica migratoria è affare che gli Stati devono affrontare, ciascuno secondo le proprie regole, quando i naufraghi sono ormai in salvo a terra e non quando si trovano ancora sulle navi soccorritrici, come dice la norma internazionale: il soccorso, infatti, inizia nel momento in cui la persona è tratta dal mare e finisce allorché, nel tempo più breve possibile, approda finalmente in un porto sicuro.

Tutto ciò non è ancora chiaro e anche per questo il Comitato ha ragione di esistere. Non si capisce perché non possano essere adeguatamente accolte a terra, in attesa di sistemazione, persone già provate da pericolosi trasferimenti fino al porto libico, da lunghe detenzioni, torture di ogni tipo e infine dal rischio di naufragare. Vengono invece trattenute sul ponte delle navi, all’aperto, in condizioni igieniche e psicologiche difficili non per la inadeguatezza delle navi e degli equipaggi, ma perché eccessive sono le attese.

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