Nel corso di un’intervista rilasciata a Radio Capital il 23 novembre, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani è tornato sul tema delle cause del caro-energia e sui possibili rimedi. «Dipende dall’aumento enorme del prezzo del gas». L’Italia, ha specificato, «è molto debole perché noi purtroppo importiamo quasi tutta l’energia» dice il ministro.

E ancora: «Noi abbiamo promesso di combattere il cambiamento climatico, ma a parità di volume di gas consumato ogni anno io cercherei il più possibile di prenderlo dai nostri giacimenti piuttosto che importarlo. Costerebbe meno. L’opzione non è trivellare di più, ma utilizzare al massimo i giacimenti che già ci sono e che casomai sono stati chiusi ma che in un anno si possono riaprire».

In sintesi, la ricetta del ministro per fermare il caro-bollette è sfruttare i “nostri” giacimenti di gas. Ma è davvero tutto così semplice come nella narrazione del ministro? Non proprio.

Il peso della bolletta, che si tratti di energia elettrica o di gas, dipende mediamente solo per un terzo dal costo della materia prima. Alla formazione del prezzo finale di gas e luce pagato dai consumatori, concorrono per un terzo il costo della materia prima, per un terzo i costi di distribuzione, gestione del contatore e oneri di sistema; infine, per un ultimo terzo, le imposte (accise ed Iva che si calcola, tra l’altro, anche sulle accise).

Ora non v’è dubbio che negli ultimi mesi il prezzo dell’energia all’ingrosso sia stato spinto in alto dall’aumento del costo del gas, visto che in Italia quasi il 50 per cento dell’energia elettrica è prodotta con il gas metano. Ma sarebbe miope non guardare anche oltre. Non può passare inosservato, infatti, che il trasporto -il cui costo è aumentato di un buon 5 per cento rispetto al 2020-, la gestione del contatore e gli oneri di sistema “pesano” quanto la materia prima. Non è normale.

Forse tutto questo ha a che fare con la gestione delle reti di distribuzione, che è appannaggio di un ristrettissimo numero di aziende, su cui l’L'Autorità garante della concorrenza e del mercato ed Arera non riescono ad esercitare un adeguato controllo e di cui dovrebbero curarsi maggiormente governo e parlamento?

Il gas tricolore

Altro capitolo è quello che riguarda i “nostri” giacimenti ed il “meno costoso” gas “tricolore”.

Il gas non è «nazionale», e quello estratto dai «nostri» giacimenti non è affatto scontato che sia il meno costoso. Nel nostro ordinamento, una volta lasciato il sottosuolo, gli idrocarburi sono di proprietà delle compagnie Oil&Gas. Si tratta di soggetti di natura privatistica che collocano il loro prodotto sul mercato internazionale del gas al prezzo più remunerativo possibile. Le cose funzionerebbero come dice il ministro solo se si decidesse di nazionalizzazione tutto il settore della ricerca, dell’estrazione e della distribuzione degli idrocarburi.

Ma immaginiamo per un attimo di fare nostra la tesi del ministro e che tutto il gas estratto in Italia si riversi sul mercato interno ad un costo più basso rispetto a quello della materia prima importata. Ebbene, secondo Assorisorse in Italia si potrebbero estrarre circa 10 miliardi di metri cubi di gas ogni anno, mentre la domanda interna di gas si attesta sui 75 miliardi di metri cubi l’anno.

Inoltre sappiamo bene che il funzionamento del mercato del gas è alquanto complesso e che il prezzo della materia prima in Italia dipende da numerose variabili: andamento dei consumi in Italia e in Europa, livello delle giacenze negli stoccaggi, condizioni climatiche, fattori geopolitici. Ciò premesso, l’aumento dei volumi di gas estratto in Italia quale effetto potrebbe avere sul prezzo del gas metano pagato da famiglie ed imprese?

Trascurabile, considerando che i 10 miliardi di meri cubi di cui scrive Assorisorse riuscirebbero ad ampliare di poco l’offerta del mercato italiano e che l’Italia da febbraio ha iniziato a esportare gas in Francia e in Svizzera.

A smentire indirettamente Cingolani è Cassa Depositi e Prestiti secondo cui dovrebbero essere piuttosto il Gnl e il metano portato dai gasdotti in Italia dal Medio Oriente a rendere il mercato del gas più liquido, non certo gli ipotetici 10 miliardi di metri cubi aggiuntivi estraibili sul territorio italiano.

L’impatto sul clima

Terzo e ultimo capitolo: l’impatto delle maggiori estrazioni italiane sul cambiamento climatico. In altra occasione il ministro ha detto che «se ne produco di più e ne importo meno, con i giacimenti già esistenti non producendo una molecola in più di CO2, non farei buchi e farei qualche posto di lavoro in più».

Cingolani immagina che estraendo di più nei mari e sulla terra ferma italiani si abbia una corrispondente diminuzione delle estrazioni in altre aree del mondo. Non è esattamente così che si determina l’offerta di idrocarburi a livello globale.

Piuttosto, un governo che avesse realmente a cuore il raggiungimento degli obiettivi del contenimento del caro bollette, della riduzione delle importazioni di gas e petrolio, della difesa del clima e della creazione di nuova occupazione, dovrebbe guardare in tutt’altra direzione rispetto alla ripresa delle attività estrattive nel nostro Paese. Magari più risparmio energetico, più energie rinnovabili, più stoccaggi e più pompaggi? Senza far ricorso alle bizzarre narrazioni a cui ci ha abituato da tempo Cingolani.

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