Rino Formica, con la lucidità e tempestività che hanno caratterizzato la sua lunga carriera di dirigente politico e uomo di governo, ha fatto notare su questo quotidiano il 30 settembre quanto sia rilevante per le preoccupazioni dell’oggi il discorso tenuto pochi giorni fa dal presidente Mattarella.

A dieci anni dalla morte di Francesco Cossiga Mattarella ne ha tracciato la figura mostrando come nei primi anni Novanta dello scorso secolo, nell’infuriare di conflitti per la fine della prima Repubblica – di cui per i media quel presidente s’era eretto a “picconatore” – quel presidente avesse tuttavia tentato con un messaggio formale alle camere a giugno ’91 di suscitare in parlamento una riflessione su come affrontare la difficile prova di una riforma della Costituzione. Se ne parlava inutilmente da oltre dieci anni e infine era stata imposta quell’anno da un primo referendum popolare per una modifica del sistema elettorale, cui aveva partecipato il 62,5 per cento degli italiani e vinto da uno strabiliante 95 per cento di Sì.

L’analogia sta nel ripetersi oggi di un referendum popolare, che col 70 per cento di Sì obbliga a modificare punti sostanziali nella struttura del parlamento, e nelle ambiguità e persistenti resistenze tra le forze politiche sul da fare. Oggi come allora la questione sta nel trovare il modo di procedere al cambiamento senza violentare e stravolgere l’impianto di garanzie costituzionali. Cossiga provò a sviscerare la questione, il messaggio era un saggio di ben 50 pagine. Ma in Parlamento non trovò alcuna sostanziale accoglienza.

Anzi da allora le forze politiche hanno consumato una sorta di vendetta contro il pronunciamento popolare, che con il ricorso a una preferenza unica mirava a dare agli elettori il potere di scelta sulle persone da eleggere. A seguito dell’affermazione di una vocazione maggioritaria tra i partiti, sull’onda di altro referendum nel ’93 sulle leggi elettorali, la questione della preferenza unica è stata molto limitata, fino a essere lasciata cadere: in particolare il sistema cosiddetto “porcellum”, voluto dalla Lega di Bossi, e poi il “rosatellum” che ha presieduto alle più recenti elezioni hanno riportato saldamente nelle mani dei capi-partito la scelta (o piuttosto la nomina) degli eletti.

La discussione parlamentare nel ’91 era avvelenata, disattese la sollecitazione del presidente perché montava un clima politico arroventato: l’opposizione agitò la minaccia di ricorrere all’impeachment di Cossiga (per altre sue sortite indubbiamente criticabili: invio di carabinieri a una seduta del Csm con intento intimidatorio, polemica personale ai limiti dell’aggressione verbale a personalità politiche ecc.); Cossiga si dimise nel’92 a pochi mesi dalla cessazione del suo incarico. Ma oggi, placati quei furori, è necessario riconoscere che allora fu persa una occasione, perché c’erano nel messaggio indicazioni cruciali, da tenere in conto ancora ora.

Tre mi sembrano i punti su cui riportare l’attenzione.  Nel messaggio di Cossiga lo scarto, tra sentimenti popolari e intento dei politici, era già denunciato con preoccupazione. E per le riforme costituzionali, che si riteneva di poterne ricavare, fermo e ripetuto fu il suo avvertimento: riforme di questo tipo non possono essere fatte senza trovare il modo di fare intervenire sempre - e non solo in mancanza di un accordo dei due/terzi del Parlamento (come previsto dall’art. 138) - un referendum confermativo. Era la prima revisione da fare: e invece la questione è stata sempre elusa dai successivi tentativi di riforma costituzionale.

Notevoli, in quel messaggio, furono altre due indicazioni: la vera riforma doveva riguardare il bicameralismo, almeno giungere a una differenziazione tra le camere; e in ogni caso per un cambiamento di questa natura (nuova “fase costituente”) non si poteva abbandonare il principio della rappresentanza proporzionale, che appunto costituisce la base di legittimazione di cambiamenti di questa natura.

Ma il referendum “manipolativo” del sistema proporzionale nel ’93, come s’è detto, capeggiato da Segni e Occhetto e sostenuto da tutti i grandi quotidiani italiani diffuse un senso comune che oscurava questa premessa: inutili furono i tanti richiami alla necessità di sottrarre al nuovo potere almeno le garanzie costituzionali delle minoranze (quorum per l’elezione del Presidente, della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura, della maggioranza necessaria per la sessa revisione costituzionale). Gli anni successivi sono stati vissuti così con l’incubo che “colpi di mano” di maggioranze occasionali potessero fare “strame” della Repubblica. Ed è appena il caso di ricordare che un tentativo in tal senso è stato consumato nel 2006 dal centro-destra, da cui ci ha salvato solo un forte referendum oppositivo.

Quanto al centro-sinistra, suo era stato il pasticcio della riforma del Titolo V del 2001, che aveva aperto la strada alla distorcente idea di autonomie regionali “differenziate” che ora sta lacerando il paese; e con Renzi nel 2016 sua è stata una decisione di riduzione del bicameralismo (pasticciata anche questa) anch’essa fortemente osteggiata dal voto, credo per l’accoppiamento con una riforma elettorale che avrebbe dato, in ipotesi, tutto il potere di governo a una forza di maggioranza anche molto risicata.

I due temi insomma ora ritornano con una forza e urgenza che non possono più essere nascoste: sono intrecciati e non possono non trovare una coerenza. La vera riforma riguarda proprio la riduzione del parlamento a procedure trasparenti e controllabili, sottratte al gioco di un bicameralismo paritario che offre enormi spazi a oscure trattative e maneggi fuori da sedi istituzionali. E questo, soprattutto se si riduce il numero degli eletti, impone un ritorno a un impianto territoriale equo e proporzionale per la elezione di rappresentanti.

Rispetto a questi nodi, il referendum fortemente voluto dal Movimento 5stelle nulla dice e nulla di buono lascia intravvedere: dilaga invece uno sprovveduto e ideologico antiparlamentarismo, che Grillo non esita ora a rilanciare. Ma per chi ha a cuore lo sviluppo di qualità dei sistemi politici democratici, la questione di innestare forme partecipative e di democrazia diretta su sistemi di rappresentanza riformati è la grande sfida.

Non è solo un problema italiano. La pandemia in tutto il mondo ha mostrato che senza uno sviluppo delle democrazie non è possibile un governo della umanità.

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